Blog di Fra Cristoforo

Lecco, 8 Novembre 1628 (Scalzo Rossella)

Mi chiamo Lodovico e sono qui a scrivere la prima pagina del mio diario per poter manifestare le mie emozioni.

Sono figlio di un ricco mercante di *** che dopo aver accumulato molte ricchezze, decise di lasciare da parte il commercio per dedicarsi ad una vita agiata.

Mio padre voleva far dimenticare il suo passato di un uomo povero e studiava tutti i modi di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui.

Io sono stato educato nel lusso, secondo l’arte della cavalleria, e sono abituato ad esser trattato con molto rispetto, circondato da adulatori.

Tuttavia, i potenti del luogo mi tengono in disparte e il mio carattere acceso mi ha portato a voler diventare una sorta di protettore degli oppressi. Prendo volentieri le parte dei deboli e cerco di tenere a freno i soverchiatori, ma per fare questo mi sono dovuto circondare di bravi, andando contro la mia coscienza.

Tutto filava liscio quando stamattina, mentre sto passeggiando per una strada della mia città, accompagnato da due bravi e dal mio fedele servitore Cristoforo, vedo spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non ho mai parlato ma che mi è cordiale nemico. Quando ci incrociamo mi dice:”Fate luogo”. Io rispondo che la precedenza è la mia e lui  risponde all’istante in modo arrogante. 

 Iniziamo a litigare fino ad arrivare alle armi e, mentre io cerco di scansare i colpi, lui cerca di uccidermi.

Cristoforo, il mio fedele servitore vedendomi ferito, viene in mio soccorso e si scaglia contro il nemico che, con una spada in mano, lo trafigge.

Io, vedendo Cristoforo a terra, con tutta la mia ira colpisco l’avversario al ventre e quello cade. I suoi bravi scappano e lo lasciano solo: rimaniamo io e i due defunti in mezzo ad una folla che si è fermata per assistere al duello.

Ora mentre scrivo, sono ricoverato nel vicino convento dei Cappuccini dove mi sono rifugiato e sto ripensando all’accaduto. Mi sento molto in colpa per la morte del mio servo, così ho deciso di chiamare un frate per cercare la vedova di Cristoforo e per dirle che provvederò io al mantenimento della famiglia.

L’antico pensiero di farmi frate è ritornato alla mia mente e, con questo segno divino, ho deciso di entrare nell’ordine dei Cappuccini, con il nuovo nome di Cristoforo.

La famiglia dell’assassino, nel frattempo, desidera far giustizia dell’ucciso, ma io vorrei chiedere il perdono e scusarmi per il gesto violento, così che mi recherò da loro e chiederò perdono.

Mi reco a casa della famiglia dell’ucciso.

Attraverso il cortile con una folla che mi squadra con una curiosità poco cerimoniosa e, seguito da un centinaio di sguardi, giungo alla presenza del padrone di casa.

Questo, circondato dai suoi parenti ha lo sguardo a terra e con la mano sinistra impugna il pomo della spada.

Io mi inginocchio e con un gesto umile invoco il perdono della famiglia che, mossa dalla commozione, mi perdona e mi offre il rinfresco. Io per non rifiutare i suoi doni chiedo un pane come pegno, lo saluto e mi reco verso l’uscita. Mentre la famiglia continua a festeggiare, abbandono la città pronto ad iniziare una nuova vita, più umile e meno ribelle.

 La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso e un po’ più alla mano.  (Alessandro Manzoni)

 

Lecco, 9 Novembre 1628, al mattino. (Scalzo Rossella)

Appena arrivato a casa di Lucia mi accorgo che i miei presentimenti non erano falsi: guardando le due donne capisco che è successo qualcosa di grave.

Lucia scoppia a piangere e io cerco di tranquillizzarla, mentre chiedo ad Agnese di raccontarmi cos’è successo. Lei inizia la sua dolorosa relazione e io cerco di trattenermi.

Appoggio il gomito sinistro sul ginocchio, chino la fronte nella palma e con la destra stringo la barba e il mento come per tenere ferme e unite tutte le potenze dell’anima.

Penso a diverse ipotesi: mettere un po’ di vergogna a Don Abbondio e fargli sentire quanto manchi al suo dovere, informar di tutto il cardinal Arcivescolo, e invocar la sua autorità, oppure tirare dalla mia parte i miei confratelli di Milano.

Alla fine decido di affrontare io stesso Don Rodrigo per tentar di smuoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se sia possibile.

Nel frattempo arriva Renzo che si ferma sulla soglia in silenzio.

Quando alzo lo sguardo per comunicare alle donne il mio progetto mi accorgo di lui e lo saluto. Renzo, prima commosso e poi infuriato, racconta del suo progetto di affrontare Don Rodrigo ma io lo afferro fortemente al braccio e gli faccio promettere che non provocherà nessuno e che si lascerà guidare da me.

Io cerco di tranquillizzarlo comunicando che andrò io stesso da lì a poco a parlare di persona a Don Rodrigo.

Detto questo, tronco i ringraziamenti e le benedizioni e mi avvio verso il convento per cantare le preghiere del mezzogiorno, poi mi metto in cammino per andare verso il covile della fiera che volevo provare ad ammansare…

 

Lecco, 9 Novembre 1628 (Nicotra Gaia)

Mentre mi avvicino al castelletto di Don Rodrigo, attraverso le strade del paese, mi rendo conto che tutti gli abitanti hanno connotati somatici inquietanti, dalle donne ai bambini: i volti sono arroganti e le espressioni maleducate.

Intravedo l’uscio presidiato da due energumeni di guardie e su di esso vedo  scolpite due teste di avvoltoi. L’edificio sembra abbandonato, le finestre sono serrate da inferriate possenti, l’atmosfera è tutt’altro che lieve, si odono cani abbaiare ferocemente. Una delle due guardie, riconoscendo il mio abito, mi degna di attenzione e mi permette di entrare. Vengo accompagnato in una sala dalla quale si sentono commensali in festa; mi annunciano, entro, un’atmosfera di disagio mi assale: è in corso una discussione su tematiche letterarie, mi vogliono coinvolgere ma cerco di evitare ogni domanda. Infastidito da ciò, Don Rodrigo quasi con tono di minaccia, mi ricorda che in fondo sa benissimo che non sono sempre stato un religioso ma un uomo di mondo e a questo punto vorrei rispondere, ma preferisco tacere ricordandomi il motivo per cui mi sono recato in questo luogo.

La discussione poi riprende, questa volta il soggetto è la successione al Ducato di Mantova, che io ascolto in silenzio, non voglio partecipare, mi sembra don Rodrigo che si stia perdendo tempo per non avere un colloquio privato con me. Me ne sto zitto in un angolo, paziente, non posso andarmene senza essere stato ascoltato, prima o poi qualcuno smetterà di parlare … Ecco! Don Rodrigo incrocia il mio sguardo, forse mi concede udienza, si alza, si avvicina e mi fa cenno di seguirlo in un’altra sala. conduce in un’ altra sala.

Don Rodrigo si mette zitto in mezzo alla stanza e mi chiede con tono deciso e quasi irriverente:  “In che cosa posso ubbidirla?”

Giro e rigiro la corona del rosario tra le mie mani cercando frasi da pronunciare o meglio cercando di non far uscire quelle che avrei voluto pronunciare, ma che non erano adatte al fine che mi ero proposto; cosi decido di venire al dunque e di chiedere un atto di carità, vale a dire di lasciare in pace Renzo e Lucia. Don Rodrigo mi risponde stizzito, dicendo di non amare chi fa leva sui sentimenti di coscienza e onore e che ha molto rispetto del mio abito ma che potrebbe dimenticarsene. Cerco di rimediare solleticando  l’ego di questo uomo  dice:  “Una parola di lei può far tutto”.  Don Rodrigo mi risponde: “Ebbene” e per un attimo spero  abbia deciso di lasciare libera Lucia, invece rigira il discorso dicendomi di portargliela in modo che possa proteggerla.

A questo punto non ce la faccio più ed esplodo dicendo: ” La vostra protezione! E’ meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatto a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.”

Inizio a dire che la sua casa sarà maledetta e termino dicendo: “Verrà un giorno…”

Don Rodrigo davanti a me rimane stupefatto, mi sembra impaurito, poi grida forte di levarmi dai piedi, mi indica la porta e io me ne vado.

Uscendo il vecchio guardiano, mi si avvicina e portandosi un dito alla bocca mi sussurra: “Padre ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle” spero di avere qualche risposta subito, invece quello mi propone un incontro in un luogo più sicuro nei giorni seguenti.

Milano,  24 Agosto 1630 (Nicotra Gaia)

Mi trovo nel lazzeretto, un recinto quadrilatero fuori dalla città di Milano destinato agli appestati, mi guardo intorno e vedo solamente uomini malati, con gli occhi che urlano sofferenza e dolore, uno di essi mi si avvicina e mi chiede aiuto, un aiuto fatto solo di parole e comprensione… nulla può guarirlo.

Mentre mi aggiro tra le baracche piene di paglia putrida e fetente con la scodella in mano, mi fermo all’uscio di una di esse, mi siedo e sento una voce, una voce familiare; poso in terra la scodella e mi alzo con difficoltà, rimango meravigliato da quell’uomo che riconosco essere Renzo, “come sta padre? Come sta?” mi domanda. Rispondo, ancora sorpreso: “Meglio di tanti poverini che tu vedi qui” . Gli chiedo di Lucia e mi dice che non è ancora sua moglie e la sta cercando, spera di trovarla proprio lì.

Mi ritiro con lui in un posto appartato,  gli procuro un pasto caldo e gli chiedo di raccontarmi cosa è successo; tra una cucchiaiata e l’altra, Renzo mi racconta di Lucia del suo rapimento e della sua clausura nel Monastero di Monza; mi racconta di essere stato anche a Milano ma di non averla trovata.

Gli dico che le donne nel lazzeretto sono divise dagli uomini ed è proibito incontrarsi.

Mi dice che sono venti mesi che la cerca e gli indico di rivolgersi a Padre Felice, il frate cappuccino del lazzeretto, perché proprio oggi avverrà l’incontro di tutti i superstiti. Quindi gli consiglio di intrufolarsi quando ci sarà il rintocco delle campane e cercare di scorgere il volto di Lucia. Spero prima di morire di sapere che lei sia viva … L’afferro per un braccio e lo sposto dicendogli che non ho tempo di dargli retta e ascoltare i suoi desideri di vendetta. Ma decido di prenderlo per mano e lo conduco in una stanza, all’interno della quale riposa un uomo in fin di vita: Don Rodrigo. Glielo indico e voglio che lo guardi, lo induco a perdonare ” forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipendono ora da te, da un sentimento di perdono, di compassione…d’amore!”

Renzo giunge le mani e china il viso su di esse, usciamo dalla stanza, io  mi avvio lentamente e dolorante con il pensiero di poterlo incontrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *