Blog di Gertrude

Monza, 5 maggio 1628, Ore:8.08   (Sara Monge)

 

Ciao, sono Gertrude, ma tutti mi chiamano “la Monaca di Monza”.
È mattino presto, mi sono appena svegliata e non so cosa fare. Mi è venuto in mente di scrivere un blog, perciò adesso vi racconto cos’è successo ieri… è stata proprio una giornata particolare.

 

Sono seduta su uno sgabello durissimo dritta dietro a una grata, con una mano bianchissima e languida appoggiata ad essa, con le dita intrecciate negli spazi vuoti. Nel mentre vedo entrare il padre Guardiano con due donne: una giovane e l’altra evidentemente più anziana. Tutte le persone mi chiamano “la signora”,mi portano rispetto e mi temono perché provengo da una famiglia molto importante, appunto il padre guardiano per parlarmi abbassa la testa, mette la mano sul petto e mi dice con un tono di voce basso e calmo “questa è la povera ragazza per la quale mi hai fatto sperare molto di poterle dare aiuto e proteggerla, l’altra è sua madre.” Le due iniziano a fare inchini e io con un cenno della mano le faccio smettere e mi rivolgo subito al padre Guardiano dicendo che fare favori ai nostri amici frati cappuccini è un piacere per me, ma voglio saperne di più di cos’è successo a questa povera ragazza che è perfino dovuta fuggire dal suo paese per venire fino a qua in convento a Monza. Agnese, la madre della giovane Lucia, inizia a parlare ma io mi sto innervosendo perché voglio farmi raccontare tutta la storia con tutti i particolari dalla ragazza, non dalla signora perché senza ombra di dubbio Lucia la racconterebbe molto meglio dato che ha vissuto questa disgrazia in  prima persona.  Così mando via Agnese e il padre Guardiano. Mentre i due escono io lo informo che alla vecchia e alla ragazza lasciamo la camera della Fattoressa che ormai è maritata e quindi se ne deve andare.  Rimaste sole, io e Lucia, iniziamo a parlare e più mi racconta più sono curiosa, cosi le chiedo di raccontarmi tutto nei minimi particolari. Lei all’inizio è stata abbastanza timida, ma poi, pian piano, si è lasciata andare e abbiamo dialogato per moltissimo tempo.  

 

 

 

Monza, 7 maggio 1628, Ore:3.52 (Sara Monge)
È notte fonda e non riesco a dormire, allora ho deciso di raccontarvi brevemente la storia della mia infanzia, capirete magari il motivo di qualche mio comportamento, ad esempio la curiosità…

 

Sono l’ultima figlia del principe ***, un gentiluomo ricco milanese. Quest’uomo era tanto bravo tanto menefreghista appunto già prima che io nascessi aveva deciso la mia sorte: dovevo diventare monaca o frate, in poche parole bastava la mia presenza. Non importava a nessuno di che sesso fossi, ancor di meno la mia volontà, l’importante era che facessi parte della chiesa. Quando sono nata hanno deciso di chiamarmi Gertrude perché è un nome portato da una santa. Mi ricordo ancora molto bene quel giorno, ero piccolina…

È mattino e vedo entrare mio padre nella mia stanza con dei regali, sono un po’ perplessa perché non c’è nessuna festività in questi giorni, ma sono comunque felicissima. Inizio a spacchettare e trovo delle bambole vestite da monache e anche dei santini che rappresentavano sempre delle monache. Ho intuito che era fatto apposta, ma non sono stata a farmi tante domande e ho iniziato a giocare. Mio padre mi guarda sorridendo, si gira e esce dalla camera.

Già da giovanissima mi hanno portato al monastero di Monza per imparare l’educazione e per autonomasia mi chiamano “la signorina”. Sono passati un po’ di anni nel monastero perciò devo diventare pure io una monaca come le altre. Ma prima di essere chiamata con il nome “monaca” dovevo essere esaminata da un ecclesiastico chiamato “il vicario delle monache” così è sicuro che ci vado di mia volontà e non obbligata da altra gente . Questo esame non poteva essere svolto, se non un anno dopo aver inviato a quel vicario il mio desiderio, con supplica per iscritto. Questa prassi veniva applicata con tutte le monache ovviamente. Dopo circa un anno dal l’invio della lettera mi avvisarono che c’era un’ultima legge, cioè che dovevo trascorrere un mese fuori dal monastero dove sono stata istruita,  perciò sono stata costretta a ritornare alla casa dove ho passato i primi anni della mia infanzia. Ma stavo cercando qualsiasi modo per non diventare monaca, perciò mi sono rivolta a una mia compagna, la quale mi ha suggerito di dire tutto a mio padre con una lettera. Ho tentato, ma non ho mai avuto risposta, forse non l’ha neanche ricevuta. Arrivò il mio temuto giorno… il ritorno a casa. Sono 8 anni che non tornavo, sono pena di gioia, ho quasi le lacrime agli occhi per la felicità, avevo avuto un po’ di malinconia in questi anni. Nei giorni trascorsi a casa spero di continuo di poter parlare con qualcuno, invece era peggio che in monastero!!! Nessuno mi rivolge la parola tranne un paggio che mi porta rispetto, non ce la faccio più. Segretamente io e il mio nuovo amico paggio iniziamo a scambiarci delle lettere, finché un giorno una cameriera mi sorprende piegare una lettera e incuriosita me la toglie dalle mani. Legge tutto e in seguito la consegna a mio padre. Sento già i passi del principe e inizio a tremare come come non mai, ero terrorizzata, non ho mai avuto così tanta paura. Sarebbe stato capace di tutto. Mi ha rinchiuso in una stanza sorvegliata dalla cameriera ficcanaso che ha scoperto delle lettere che mi scambiavo con il paggio. Tra l’altro, questa donna, era insopportabile, antipatica e permalosa. Mi sto sento in colpa perché non ho più notizie del paggio, ma immagino che non lavori più qua, mio padre, conoscendolo, l’avrà sfrattato. Passato un po’ di tempo capisco l’enorme errore che ho commesso e all’ora scrivo una lettera con sincere scuse a mio padre.

 

Ora cerco di prendere un po’ sonno che domani mattina mi devo svegliare presto. La prossima volta continuerò a raccontarvi la mia storia. 

Blog dell’avvocato Azzeccagarbugli

Lecco,Mercoledì 8 Novembre 1628, ore 21.00 (Alessia Paschetta)

Caro diario questa mattina stavo controllando l’ennesima grida nel mio studio con dosso la mia solita toga consulta,quando sento degli strani versi e la mia serva che,con un tono scocciato e duro,dice:”date qui e andate inanzi”. Allora uscito dal mio studio, un po’ disordinato e impolverato, vidi quello che ai miei occhi era palesemente un bravo,che si era tagliato il ciuffo per rendersi meno riconoscibile (che astuzia!) e che si inchinava dinanzi a me, con a fianco la mia serva con quattro capponi in mano.

L’avvocato Azzecca-Garbugli

Lo feci entrare e subito ho notato che il giovane si guardava in torno con aria disorientata, ma speranzosa; allora gli ho chiesto il motivo della sua vista ed egli subito inizia a scusarsi per il suo linguaggio da “poveraccio “(cosa che ormai sta diventando una consuetudine e per cui ogni volta devo fingere compassione per questa fascia di società analfabeta o quasi) e mi chiese, dopo un po’ di insistenza da parte mia per farmi raccontare il fatto e lasciare perdere le scuse, se minacciare un curato,perché non vuole celebrare un matrimonio, fosse un reato penale.

Io subito non ho capito, infatti ho preso tempo giocando con le mie labbra, poi mi sono ricordato di quella grida fresca fresca che avevo messo qualche giorno fa in quel mucchio di gride polverose sul mobile dietro la scrivania, quindi mi sono alzato e l’ho presa. Il poveretto mi faceva quasi compassione, infatti mi è venuto quasi naturale chiamarlo figliuolo e gli ho chiesto se sapesse leggere, cosi’ potevamo analizzare insieme il suo caso. Lui mi ha risposto che se la cavava, ma non era bravissimo; allora ho iniziato a leggere la grida che sembrava essere fatta apposta per il “poverello”, dopo di che ho iniziato a complimentarmi con lui “per il travestimento”,però anche un po’ infastidito, gli ho chiesto di spiegarmi dettagliatamente il motivo della sua visita e per rassicurarlo gli ho detto che comunque io ho cavato altri imbrogli peggiori di una minaccia a un curato o una persona importante. Lui subito mi rispose che non è lui che ha minacciato, ma bensì era lui stesso la vittima.

L’avvocato Azzecca-Garbugli e Renzo

Allora lì ho capito tutto il malinteso che c è stato fra me e quel ragazzo!

Quindi con voce scocciata e arrabbiata gli ho chiesto di chiarire le cose. Dunque inizia raccontare e io inizio a capire che non erano faccende da Azzecca-Garbugli, avrei rischiato troppo… .

Così ho deciso di lavarmene le mani e cacciarlo dal mio studio,sminuendo il suo caso.

Il bello è che il giovane ha continuato a insiste,quindi mi sono innervosito ancora di più, ho chiamato la serva per dargli indietro le bestie e l’ho cacciato!

Non mi era mai capitato di scambiare un giovane di buona fede per un bravo,ma che giornata!

Lecco,Giovedì 9 novembre 1628, ore 23.50(Paschetta Alessia)

Caro diario oggi, dopo aver passato una comune giornata in studio, sono stato invitato a cena da don rodrigo nel suo palazzotto. Allora chiuso lo studio per le 18 ho iniziato a prepararmi, così che per le 19.00 sono partito.

Arrivato sulla collina del palazzotto, da dove potevo vedere tutta Olata, mi sono diretto verso l’entrata e sul portone d’ingresso ho notato subito due avvolto inchiodati ad esso. Che inquietudine! Oltre a quel “benvenuto” ho visto subito la polvere e lo sporco del suo castello, ma dal tronde dovevo immaginarlo già dall’esterno dove c’erano pale e rastrelli buttati a caso e due bravi con aria stanca e scocciata fuori a fare come da guardia. Oltre a me, poco dopo, è arrivato il Podestà, il cugino del padrone, Attilio e altri due convivianti, di cui neanche mi ricordo il nome.

Cena nel palazzotto di Don Rodrigo

Ci siamo seduti subito a tavola e verso le 20 la cena è stata servita. Penso di non aver mai mangiato cosí male in tutta la mia vita, infatti la carne era scotta, la Verdura era stopposa e il pane duro.

In piú, perché tutto ciò non bastava a rovinare la serata, dovevamo parlare di una faccenda noiosissima di cavalleria, ma a un certo punto è arrivato un servo con un frate che don rodrigo, un po’ spaventato, fa sedere al tavolo con noi. Dopo abbiamo cambiato discorso e abbiamo iniziato a parlare di politica e della guerra di successione del ducato di Mantova allora, dato che l argomento mi sembrava troppo pesante e noioso ho proposto un brindisi per il duca d’Olivares e a cui ha partecipato anche il frate.

Dopo il mio brindisi l argomento della cena è cambiato di nuovo, infatti abbiamo iniziato a parlare della carestia, però non so bene cosa sia successo, so solo che a un certo punto Don Rodrigo si allonta con il frate ed è tornato  10 minuti dopo solo e  con aria scocciata e spaventata.

Dopo questo piccolo inconveniente la noiosa serata e andata avanti fra chiacchiere inutili e bicchieri di vino.

Adesso sono nel letto con la luce della candela che sto pensando a che pessima serata è stata questa.

Promemoria: non andare a mangiare mai più nel palazzotto di Don Rodrigo.

Blog del Griso

Lecco, Martedì 7 Novembre 1628, pomeriggio. (Sabrina Patrucco)

Io sono il Griso, il capo dei bravi di don Rodrigo, il mio signorotto. Questo mio nome un po’ strano deriva da un termine lombardo che significa “grigio” e si riferisce al mio carattere cupo. Ho iniziato a lavorare per il mio padrone un po’ di tempo fa, quando, dopo che uccisi un uomo, scappai alla giustizia e mi misi sotto la sua protezione.

Nel paese tutto mi descrivono come “ colui al quale s’impongono le imprese più rischiose e inique”, proprio perché don Rodrigo mi affida ogni giorno incarichi molto pericolosi e delicati.  Ha piena fiducia in me e io ne vado fiero, anche se a causa sua sono complice di molti delitti e crimini.

Quando indosso la mia livrea, mi sento troppo forte: la reticella verde in testa, la cintura lucida di cuoio con appese le pistole, gli ampi calzoni dai quali spunta fuori un manico di coltellaccio, la spada lucente; porto i baffi arricciati in punta, sulla fronte un enorme ciuffo e appeso al collo , come una collana, un piccolo corno ripieno di polvere. Faccio proprio paura!! Chissà come si è sentito don Abbondio quando ha visto me e l’altro bravo che lo aspettavamo! Si è quasi sentito male quando abbiamo fatto il nome di don Rodrigo! Ha provato a difendersi, il codardo, ma gli ho fatto capire che i prepotenti hanno sempre ragione.

Lecco, Venerdì 10 Novembre 1628, mattina, pomeriggio, sera e notte

Uno degli incarichi che mi è stato affidato dal mio capo è quello del rapimento di Lucia  che doveva avvenire nella stessa notte (la “notte degli imbrogli”). La mattina, insieme ad altri bravi, mi sono travestito da mendicante per intrufolarmi a casa di Lucia per poter vedere l’interno. Ho anche fatto finta di sbagliare uscio, così mi sono ritrovato sulla scala e le ho dato in fretta un’occhiata. Ho fatto alcune domande alle due donne, ma mi rispondevano in modo evasivo e sembravano sospettose.

Tutto era pronto per il rapimento e la notte sono entrato con i miei compagni nella casa di Lucia ma era vuota, non c’era nessuno! Abbiamo messo la casa sottosopra , abbiamo rovistato dappertutto, ma nulla, Lucia non c’era proprio. Il garzoncello Menico è arrivato all’improvviso, ci ha sorpresi in casa. Ha cacciato un urlo, l’ho minacciato tirando fuori il mio coltellaccio. Poi le campane si sono messe a suonare impazzite, un rintocco dietro l’altro, siamo dovuti scappare e nella confusione Menico se l’è data a gambe. Che vergogna! I bravi, presi dal panico, si scompigliavano, si urtavano a vicenda, ognuno cercava la strada più corta per arrivare all’uscio, sembravano una mandria di porci. Ho dovuto usare tutta la mia autorità per riportarli all’ordine e prendere la strada che portava fuori dal paese.

Il mio padrone mi aspettava in cima alla scala e mi ha accolto con rimproveri che non meritavo: avevo lavorato duramente rischiando anche la pelle. Quando poi mi ha congedato, ha cercato di addolcire i rimproveri dicendomi che comunque mi ero comportato bene. Gli ho promesso che l’indomani mi sarei mescolato con altri bravi alla gente del paese per capire cosa fosse successo quella notte. La gente parla ed è stato facile capire dove si era rifugiata Lucia. Così don Rodrigo mi ha ordinato di trasferirmi a Monza per prendere informazioni circa il convento in cui Lucia era stata accolta. Io ero pronto a metterci la pelle per il mio padrone, ma questa…questa poteva anche risparmiarsela!

A Monza ero conosciuto, c’erano parecchie taglie sulla mia testa e non avrei avuto la protezione di don Rodrigo. L’ho spiegato al mio padrone e lui mi ha deriso, ha detto che sembravo quei cani da cortile che hanno l’aspetto feroce ma sono in realtà paurosi. Mi sono risentito e ho detto che ero pronto a partire e così ho fatto portando con me lo Sfregiato e il Tiradritto. Sono partito per Monza arrabbiato come un lupo affamato nella neve.

Milano, fine Agosto 1630, di notte.

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Quando don Rodrigo si è sentito poco bene, ho subito avuto il sospetto che covasse la peste e gli ho puntato in faccia il lume per guardarlo meglio.

Lui diceva che stava bene, che aveva solo bevuto troppo ma, quando febbricitante ha cacciato un urlo e mi ha chiamato, ho avuto la certezza che era proprio peste. L’ho guardato a distanza, era disperato, ha detto che se fosse guarito mi avrebbe fatto del bene più di quanto non me ne avesse già fatto. Diceva che si fidava solo di me, voleva che chiamassi il chirurgo e che lo avrebbe pagato bene per tenere segreta la sua malattia. Lui è gli scudi! Pensava di comprare ogni cosa con i suoi scudi! Non ce l’ho fatta, l’ho tradito: ho chiamato i monatti, lui era sconvolto, chiedeva aiuto, voleva ammazzarmi, diceva che aveva fatto sempre il mio bene. Io mi voltavo dell’altra parte e con i monatti mi sono impossessato dei suoi averi. I monatti lo portarono via su una barella e io rimasi a scegliere quello che mi poteva servire; non avevo mai toccato i monatti per paura della malattia ma nella furia del frugare ho scosso i panni del mio padrone. Non sono riuscito a godere delle cose rubate: il giorno dopo mi sono sentito male in una bettola, i compagni mi hanno abbandonato.

Sono finito nelle mani dei monatti che mi hanno preso tutto e mi hanno gettato su un carro. Sono morto prima di arrivare al Lazzaretto.

Adesso che sono morto posso dire come la penso sul mio padrone: ero il suo fidato, diceva che mi aveva fatto solo del bene. Io mi sentivo protetto da lui per evitare la galera e lui mi usava per i suoi servizi. Era abituato a comprare tutto con i suoi scudi, mi ha detto che ero un cane da pagliaio quando non volevo andare a Monza, mi ha pagato e io ci sono andato.  Non lo sopportavo più, per questo l’ho tradito consegnandolo ai monatti. Pensavo di vivere agiatamente con i suoi averi ma la mia avidità mi ha portato alla morte e adesso che sono nell’aldilà, credo che, se non fossi stato accecato dalla possibilità di diventare ricco, forse sarei ancora vivo.

 

 

Blog di Fra Cristoforo

Lecco, 8 Novembre 1628 (Scalzo Rossella)

Mi chiamo Lodovico e sono qui a scrivere la prima pagina del mio diario per poter manifestare le mie emozioni.

Sono figlio di un ricco mercante di *** che dopo aver accumulato molte ricchezze, decise di lasciare da parte il commercio per dedicarsi ad una vita agiata.

Mio padre voleva far dimenticare il suo passato di un uomo povero e studiava tutti i modi di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui.

Io sono stato educato nel lusso, secondo l’arte della cavalleria, e sono abituato ad esser trattato con molto rispetto, circondato da adulatori.

Tuttavia, i potenti del luogo mi tengono in disparte e il mio carattere acceso mi ha portato a voler diventare una sorta di protettore degli oppressi. Prendo volentieri le parte dei deboli e cerco di tenere a freno i soverchiatori, ma per fare questo mi sono dovuto circondare di bravi, andando contro la mia coscienza.

Tutto filava liscio quando stamattina, mentre sto passeggiando per una strada della mia città, accompagnato da due bravi e dal mio fedele servitore Cristoforo, vedo spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non ho mai parlato ma che mi è cordiale nemico. Quando ci incrociamo mi dice:”Fate luogo”. Io rispondo che la precedenza è la mia e lui  risponde all’istante in modo arrogante. 

 Iniziamo a litigare fino ad arrivare alle armi e, mentre io cerco di scansare i colpi, lui cerca di uccidermi.

Cristoforo, il mio fedele servitore vedendomi ferito, viene in mio soccorso e si scaglia contro il nemico che, con una spada in mano, lo trafigge.

Io, vedendo Cristoforo a terra, con tutta la mia ira colpisco l’avversario al ventre e quello cade. I suoi bravi scappano e lo lasciano solo: rimaniamo io e i due defunti in mezzo ad una folla che si è fermata per assistere al duello.

Ora mentre scrivo, sono ricoverato nel vicino convento dei Cappuccini dove mi sono rifugiato e sto ripensando all’accaduto. Mi sento molto in colpa per la morte del mio servo, così ho deciso di chiamare un frate per cercare la vedova di Cristoforo e per dirle che provvederò io al mantenimento della famiglia.

L’antico pensiero di farmi frate è ritornato alla mia mente e, con questo segno divino, ho deciso di entrare nell’ordine dei Cappuccini, con il nuovo nome di Cristoforo.

La famiglia dell’assassino, nel frattempo, desidera far giustizia dell’ucciso, ma io vorrei chiedere il perdono e scusarmi per il gesto violento, così che mi recherò da loro e chiederò perdono.

Mi reco a casa della famiglia dell’ucciso.

Attraverso il cortile con una folla che mi squadra con una curiosità poco cerimoniosa e, seguito da un centinaio di sguardi, giungo alla presenza del padrone di casa.

Questo, circondato dai suoi parenti ha lo sguardo a terra e con la mano sinistra impugna il pomo della spada.

Io mi inginocchio e con un gesto umile invoco il perdono della famiglia che, mossa dalla commozione, mi perdona e mi offre il rinfresco. Io per non rifiutare i suoi doni chiedo un pane come pegno, lo saluto e mi reco verso l’uscita. Mentre la famiglia continua a festeggiare, abbandono la città pronto ad iniziare una nuova vita, più umile e meno ribelle.

 La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso e un po’ più alla mano.  (Alessandro Manzoni)

 

Lecco, 9 Novembre 1628, al mattino. (Scalzo Rossella)

Appena arrivato a casa di Lucia mi accorgo che i miei presentimenti non erano falsi: guardando le due donne capisco che è successo qualcosa di grave.

Lucia scoppia a piangere e io cerco di tranquillizzarla, mentre chiedo ad Agnese di raccontarmi cos’è successo. Lei inizia la sua dolorosa relazione e io cerco di trattenermi.

Appoggio il gomito sinistro sul ginocchio, chino la fronte nella palma e con la destra stringo la barba e il mento come per tenere ferme e unite tutte le potenze dell’anima.

Penso a diverse ipotesi: mettere un po’ di vergogna a Don Abbondio e fargli sentire quanto manchi al suo dovere, informar di tutto il cardinal Arcivescolo, e invocar la sua autorità, oppure tirare dalla mia parte i miei confratelli di Milano.

Alla fine decido di affrontare io stesso Don Rodrigo per tentar di smuoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se sia possibile.

Nel frattempo arriva Renzo che si ferma sulla soglia in silenzio.

Quando alzo lo sguardo per comunicare alle donne il mio progetto mi accorgo di lui e lo saluto. Renzo, prima commosso e poi infuriato, racconta del suo progetto di affrontare Don Rodrigo ma io lo afferro fortemente al braccio e gli faccio promettere che non provocherà nessuno e che si lascerà guidare da me.

Io cerco di tranquillizzarlo comunicando che andrò io stesso da lì a poco a parlare di persona a Don Rodrigo.

Detto questo, tronco i ringraziamenti e le benedizioni e mi avvio verso il convento per cantare le preghiere del mezzogiorno, poi mi metto in cammino per andare verso il covile della fiera che volevo provare ad ammansare…

 

Lecco, 9 Novembre 1628 (Nicotra Gaia)

Mentre mi avvicino al castelletto di Don Rodrigo, attraverso le strade del paese, mi rendo conto che tutti gli abitanti hanno connotati somatici inquietanti, dalle donne ai bambini: i volti sono arroganti e le espressioni maleducate.

Intravedo l’uscio presidiato da due energumeni di guardie e su di esso vedo  scolpite due teste di avvoltoi. L’edificio sembra abbandonato, le finestre sono serrate da inferriate possenti, l’atmosfera è tutt’altro che lieve, si odono cani abbaiare ferocemente. Una delle due guardie, riconoscendo il mio abito, mi degna di attenzione e mi permette di entrare. Vengo accompagnato in una sala dalla quale si sentono commensali in festa; mi annunciano, entro, un’atmosfera di disagio mi assale: è in corso una discussione su tematiche letterarie, mi vogliono coinvolgere ma cerco di evitare ogni domanda. Infastidito da ciò, Don Rodrigo quasi con tono di minaccia, mi ricorda che in fondo sa benissimo che non sono sempre stato un religioso ma un uomo di mondo e a questo punto vorrei rispondere, ma preferisco tacere ricordandomi il motivo per cui mi sono recato in questo luogo.

La discussione poi riprende, questa volta il soggetto è la successione al Ducato di Mantova, che io ascolto in silenzio, non voglio partecipare, mi sembra don Rodrigo che si stia perdendo tempo per non avere un colloquio privato con me. Me ne sto zitto in un angolo, paziente, non posso andarmene senza essere stato ascoltato, prima o poi qualcuno smetterà di parlare … Ecco! Don Rodrigo incrocia il mio sguardo, forse mi concede udienza, si alza, si avvicina e mi fa cenno di seguirlo in un’altra sala. conduce in un’ altra sala.

Don Rodrigo si mette zitto in mezzo alla stanza e mi chiede con tono deciso e quasi irriverente:  “In che cosa posso ubbidirla?”

Giro e rigiro la corona del rosario tra le mie mani cercando frasi da pronunciare o meglio cercando di non far uscire quelle che avrei voluto pronunciare, ma che non erano adatte al fine che mi ero proposto; cosi decido di venire al dunque e di chiedere un atto di carità, vale a dire di lasciare in pace Renzo e Lucia. Don Rodrigo mi risponde stizzito, dicendo di non amare chi fa leva sui sentimenti di coscienza e onore e che ha molto rispetto del mio abito ma che potrebbe dimenticarsene. Cerco di rimediare solleticando  l’ego di questo uomo  dice:  “Una parola di lei può far tutto”.  Don Rodrigo mi risponde: “Ebbene” e per un attimo spero  abbia deciso di lasciare libera Lucia, invece rigira il discorso dicendomi di portargliela in modo che possa proteggerla.

A questo punto non ce la faccio più ed esplodo dicendo: ” La vostra protezione! E’ meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatto a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.”

Inizio a dire che la sua casa sarà maledetta e termino dicendo: “Verrà un giorno…”

Don Rodrigo davanti a me rimane stupefatto, mi sembra impaurito, poi grida forte di levarmi dai piedi, mi indica la porta e io me ne vado.

Uscendo il vecchio guardiano, mi si avvicina e portandosi un dito alla bocca mi sussurra: “Padre ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle” spero di avere qualche risposta subito, invece quello mi propone un incontro in un luogo più sicuro nei giorni seguenti.

Milano,  24 Agosto 1630 (Nicotra Gaia)

Mi trovo nel lazzeretto, un recinto quadrilatero fuori dalla città di Milano destinato agli appestati, mi guardo intorno e vedo solamente uomini malati, con gli occhi che urlano sofferenza e dolore, uno di essi mi si avvicina e mi chiede aiuto, un aiuto fatto solo di parole e comprensione… nulla può guarirlo.

Mentre mi aggiro tra le baracche piene di paglia putrida e fetente con la scodella in mano, mi fermo all’uscio di una di esse, mi siedo e sento una voce, una voce familiare; poso in terra la scodella e mi alzo con difficoltà, rimango meravigliato da quell’uomo che riconosco essere Renzo, “come sta padre? Come sta?” mi domanda. Rispondo, ancora sorpreso: “Meglio di tanti poverini che tu vedi qui” . Gli chiedo di Lucia e mi dice che non è ancora sua moglie e la sta cercando, spera di trovarla proprio lì.

Mi ritiro con lui in un posto appartato,  gli procuro un pasto caldo e gli chiedo di raccontarmi cosa è successo; tra una cucchiaiata e l’altra, Renzo mi racconta di Lucia del suo rapimento e della sua clausura nel Monastero di Monza; mi racconta di essere stato anche a Milano ma di non averla trovata.

Gli dico che le donne nel lazzeretto sono divise dagli uomini ed è proibito incontrarsi.

Mi dice che sono venti mesi che la cerca e gli indico di rivolgersi a Padre Felice, il frate cappuccino del lazzeretto, perché proprio oggi avverrà l’incontro di tutti i superstiti. Quindi gli consiglio di intrufolarsi quando ci sarà il rintocco delle campane e cercare di scorgere il volto di Lucia. Spero prima di morire di sapere che lei sia viva … L’afferro per un braccio e lo sposto dicendogli che non ho tempo di dargli retta e ascoltare i suoi desideri di vendetta. Ma decido di prenderlo per mano e lo conduco in una stanza, all’interno della quale riposa un uomo in fin di vita: Don Rodrigo. Glielo indico e voglio che lo guardi, lo induco a perdonare ” forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipendono ora da te, da un sentimento di perdono, di compassione…d’amore!”

Renzo giunge le mani e china il viso su di esse, usciamo dalla stanza, io  mi avvio lentamente e dolorante con il pensiero di poterlo incontrare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Blog di Don Rodrigo

Ciao a tutti, sapete già chi sono vero? Io sono il signore delle terre di ***: Don Rodrigo. Ho aperto questo blog perché voglio raccontarvi per bene le mie avventure, così per rendervi partecipi siccome le vostre vite non sono sicuramente entusiasmanti quanto la mia.

Lecco, Lunedì 6 novembre 1628 ( Denisa Istoc)

Sono in compagnia di mio cugino Attilio, in questo momento ci stiamo godendo la passeggiata, nel mentre stiamo parlando, quando lui all’ improvviso mi fa una domanda: “mi meraviglio che oggi I tuoi bravi non ti stiano a presso, di solito ti stanno sempre dietro in quanto tu non sei capace da solo, vero il mio caro cuginetto?” mi deride lui.

Gli ricordo che io a differenza sua ho persino un palazzo e una serie di uomini pronti a combattere per me servirmi, tu invece cos’hai? La nostra conversazione scherzosa sta mutando in una specie di sfida, rimanendo comunque in tono amichevole, in quanto noi siamo abituati a parlarci in questo modo.
Inizia subito a vantarsi delle sue conquiste, allargando le braccia per mostrarmi che tutto il mondo ritiene che lo premi per le sue doti.

Mi accusa che nonostante abbia un palazzo, terre e uomini, continui a non essere in grado di avere una donna al mio fianco. Gli feci subito notare che nemmeno lui ce l’ha. Eppure, lui mi risponde dicendomi che invece ne ha anche troppe, mentre io è da tempo che non ho una donna al mio fianco. Ci penso un attimo, nonostante sappia che abbia ragione… ma per rispondergli a tono, per non sembrare debole gli rispondo che non ho tempo per queste stupidaggini. Lui continua a sfidarmi chiedendomi se non ho tempo o non ho modo, mi deride.

Attilio sta oltrepassando ogni limite, non può insultarmi, così gli rispondo che io posso fare tutto, persino conquistare il cuore di una ragazza. Lui allora mi mostra una ragazza nei pressi della filanda e mi chiede se persino lei. Io gli dico che l’ho vista un paio di volte, si aggirava nei pressi della casa di Don Abbondio, la definisco un tipo timido con bisogno di protezione perché la sua natura è di tipo pauroso. Sono di certo io quello che potrà darle la protezione di cui lei ha bisogno. Gli faccio comunque notare che quella ragazza e promessa in sposa ad un certo Renzo Tramaglino… Posso fare tutto quindi scherzando e ridendo scommettiamo sul fatto che sarà mia.

 

Lecco, Giovedì 9 novembre 1628, prime ore del pomeriggio (Denisa Istoc)

Per oggi ho organizzato un sontuoso banchetto al quale assistono il Conte Attilio, Podestà e il dottor Azzeccagarbugli.

Mio cugino mi ha richiamato l’attenzione salutando un soggetto della cui presenza mi ha confuso, si tratta di un frate. Non capisco chi possa essere, ma poiché mio cugino lo saluta con tale enfasi, decido di farlo unire al nostro dibattito.

È quel frate che si trova nel paese vicino, Fra Cristoforo. Si inchina come segno di rispetto e alza la mano per salutare gli altri. Subito lo faccio accomodare e gli offro un bicchiere di vino come è giusto fare, e nonostante non accetti, insisto. Mi dice di voler parlare di qualcosa di importante e allora io gli rispondo dicendo che parleremo dopo.

Stiamo parlando quando il frate ci interrompe e insiste con il fatto di voler parlare con me, allora lo porto in una stanza. Inizia il discorso riferendosi al fatto che certi abbiano fatto il mio nome per quanto riguarda l’oppressione di due giovani innocenti. Capisco di chi stia parlando, ma per non finire nei guai, visto che Fra Cristoforo non è come Don Abbondio, lui cerca di ottenere la mia confessione ma invano, svio l’argomento alla nomina di Dio. Io per quanto lui stia cercando di non essere ostile, parlandomi in modo diplomatico, mi infastidisco lo stesso a causa della sua indiretta accusa e allora inizio a prenderlo in giro parlandogli in modo malvagio e sfidandolo.

Lui, visibilmente infastidito mi dice che anche se ora io sono il capo, quando sarò in cielo, sarà solo Dio a decidere la mia sorte in base al mio operato terreno, intendendo quindi che io farò una brutta fine nell’ Aldilà. Adesso ha iniziato anche a parlare del mio onore, dicendo che in questo modo potrebbe risentirne, mi parla di questo, quando tutti e quindi anche lui, sanno che io non sono una brava persona e non voglio esserlo. Lo minaccio dicendogli che io porto rispetto al suo abito, quindi al ruolo che ricopre, ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a qualcuno che ardisse di venire a fare la spia nella mia casa.

Il frate, arrabbiato, cambia tono, e dopo una lunga e aggressiva discussione pronuncia il nome della ragazza cioè Lucia.

In fine mi dice, alzando il dito in su e guardandomi negli occhi, “verrà un giorno…” ma non finisce la frase, parla di Dio, il quale un giorno mi punirà. Io, arrabbiato per il fatto che abbia osato parlare in questo modo a me e per la paura di Dio gli urlo contro e lo caccio via da casa mia.

 

Lecco, Giovedì 9 novembre 1628 pomeriggio e sera (Serena Rubiano)

Sono davvero infuriato con quel maledettissimo Frate, non doveva assolutamente trattarmi in quel modo e soprattutto non doveva permettersi di dire quella stupida frase. Percorrendo la stanza a grandi passi, cerco di farmi venire qualcosa in mente ma mi fermo a guardare i miei antenati, che hanno tutti compiuto grandi cose, come me ovviamente, e che riescono a trasmettere terrore anche soltanto da una fotografia.

Pensare alle parole di Fra Cristoforo mi mette tanta agitazione da farmi venire la pelle d’oca. Forse mi sto tormentando troppo, ma non riesco proprio a darmi pace per il fatto che un frate abbia osato venirmi addosso con tanta arroganza.
Tutto questo è un disonore, io devo portare alto il nome della mia famiglia. So cosa fare, poterei… anzi no forse sarebbe meglio…

Mi stanno venendo alla mente troppi disegni di vendetta, non so quale scegliere. Così decido di chiamare un servo e di dirgli di comunicare agli altri che mi sono trattenuto per un affare urgente. Nel frattempo penso ancora alle parole di Fra Cristoforo, ma mi interrompo quasi subito per via del servo che è venuto a riferirmi che tutti sono andati via. Decido di andare a fare una passeggiata anch’io e ordino al servo di chiamare sei uomini e di portarmi subito la spada, la cappa e il cappello. Arrivano quasi subito tutti armati e pronti ad uscire; ci dirigiamo verso Lecco. Sono più altezzoso, più superbo e più accigliato del solito perché voglio che tutti gli abitanti di questo paese mi vedano così, mi devono temere.

Camminando, iniziamo a incontrare alcune persone che si ritraggono al muro e fanno inchini che ovviamente io non ricambio. Incontro anche persone di una certa importanza ed anche loro si inchinano dinnanzi a me. Per tirarmi su il morale decido di andare in un luogo di ritrovo in cui ci sono molte persone. Mi accolgono molto bene, sono cordiali e rispettosi. Dato che è già notte, decido di tornare al mio palazzetto dove incontro Attilio, che sta anche lui tornando a casa.

Mentre ceniamo, io e mio cugino parliamo della scommessa. Lui mi chiede, infatti, quando la pagherò, convinto che ormai io abbia perso la scommessa ma gli ho ricordato che ho ancora del tempo a disposizione. Attilio continua a parlare della scommessa, del frate, del fatto che è convinto che perderò e inizia anche a raccontare storie strane. Decido così di proporgli di raddoppiare la scommessa e lui accetta. Io non sono affatto stupido: ho fatto questa proposta perché sono sicuro che vincerò. Ho già pensato a tutto, rapirò Lucia. Intanto Attilio continua a pormi domande sulla mia decisione, è molto curioso, ma io sono bravo ad evitarle tutte. Vado a dormire, è stata una giornata piuttosto stancante.

 

Lecco, Venerdì 10 novembre 1628 (Serena Rubiano)

Oggi mi sono svegliato con il piede giusto, dormire mi ha fatto proprio bene, i sogni mi hanno aiutato a dimenticare le parole di Fra Cristoforo. Sono di nuovo me stesso, ieri sono stato un vero fifone. Appena sveglio, chiamo subito il Griso, il capo dei miei bravi, e gli ordino di rapire Lucia e di portarla qua senza un graffio, non voglio che le venga fatto del male. Il Griso e altri bravi organizzano il rapimento.

Poco dopo si recano a casa di Lucia vestiti da mendicanti. Il Griso bussa alla porta e chiede un pezzo di pane. Mentre è lì, si guarda bene intorno e quando gli viene dato il pane finge di sbagliare porta per guardare un’altra stanza. Il piano per ora prosegue bene. Il Griso mi riferisce tutto quello che ha visto nella casa di Lucia e la zona in cui si trova. Dico al Griso che pensi lui a come rapirla: l’importante per me è che sia qui prima di domani. Alla sera vedo i
miei bravi andarsene e ho fiducia in loro, hanno fatto cose più difficili, questa      (Alcuni dei miei bravi)                       volta dovrebbe essere una passeggiata.

Finalmente arrivano, ma con loro non c’è Lucia. È impossibile! Devono averla presa. Forse l’hanno lasciata al pano di sotto!? Non capisco proprio, come hanno fatto? Appena il Griso entra gli chiedo dov’è Lucia e già dal suo sguardo capisco che non sono riusciti a prenderla. Ho voglia di picchiare tutti i miei bravi, ho chiesto loro una cosa soltanto e non sono riusciti a farla! Io del Griso mi fido molto, non riesco ancora a capire come abbia fatto a farsela sfuggire. Chiedo subito delle spiegazioni al Griso che inizia a raccontarmi tutto fin dall’inizio.

Aveva mandato tre bravi all’osteria del paese per controllare la situazione. Loro gli avevano riferito che ad un certo punto era arrivato Renzo con altri due, un certo Tonio e un altro di cui non erano riusciti a capire il nome. Avevano parlato sottovoce tutto il tempo e Renzo continuava a guardarli insospettito. Quando se n’erano andati i bravi sono rimasti ancora lì per un po’, fin quando il brusio della gente che tornava a casa era svanito perché tutti dormivano. Poco dopo aevano raggiunto il Griso e altri bravi, vicino alla casa di Lucia. Erano entrati piano piano con molta cautela, il Griso aveva fatto nascondere alcuni bravi dietro ad un cespuglio che aveva visto la mattina stessa e aveva bussato alla porta con l’intenzione di fingersi un pellegrino smarrito. Aveva continuato a bussare, ma nessuno apriva così decise di aprire da solo la porta. Al piano terra però non ha trovato nessuno. Sono andati al piano di sopra e anche lì non c’era nessuno. Nel frattempo i bravi nascosti dietro al cespuglio si erano imbattuti nel Menico che aveva gridato alla loro vista ma i bravi lo avevano preso e gli avevano messo una mano sulla bocca. Poco dopo avevano sentito le campane suonare, tutta la gente si era svegliata ed era scesa per le strade. I bravi, impauriti, avevano lasciato andare Menico; stavano per scappare tutti disordinatamente ma il Griso aveva mantenuto l’ordine ed erano scappati via tutti insieme percorrendo una stradina fuori paese.

Sentendo tutto ciò penso che in fin dei conti non è stata colpa dei miei bravi, ma sono lo stesso un pochino arrabbiato con loro. Ci dev’essere una spia, come facevano a sapere della rapina? Perché hanno suonato le campane di notte? Troppe domande continuano a ronzarmi in testa e questo mi infastidisce troppo, così ordino al Griso di andare in paese l’indomani e di cercare di capire cosa fosse successo questa notte. Per questa volta Lucia è stata fortunata ma non mi arrenderò mai, proverò di nuovo a rapirla e la prossima volta mi assicurerò io stesso che sia tutto perfetto.

 

Lecco, Sabato 11 novembre 1628 (Serena Rubiano)

Mi sono appena svegliato, che sonno! Vedo subito Attilio che alla mia vista si rallegra e mi urla in faccia che è San Martino (il giorno della scadenza della scommessa). Non so cosa dire, pagherò la scommessa, ma non è questa la cosa che mi scoccia di più, bensì il fatto che pensavo di stupirlo stamattina, invece è stata una vera delusione.

Decido di raccontare tutto per bene a mio cugino perché sinceramente non mi va di fare la figura dello scemo. Attilio mi dice che ci deve essere di mezzo quel frate, mi chiede anche come abbia fatto a sopportare tutte quelle sofferenze che mi aveva causato il frate e ammette che lui al posto mio l’avrebbe ucciso. Anch’io avrei voluto farlo, ma non avevo voglia di mettermi contro tutti i frati d’Italia.

Il conte Attilio ad un certo punto mi fa una proposta, mi dice che ci penserà lui a tutta questa faccenda e che parlerà con il Conte Zio (un capo clan mafioso) a cui affiderà il compito di far allontanare Fra Cristoforo. Io non so ancora se acconsentire ma mi sembra una proposta accettabile. Iniziamo a fare colazione e non smettiamo di parlare d’affari.

Io, che non resisto più, inizio a lamentarmi di tutto ciò, della situazione in cui ci troviamo. Mio cugino insinua che ho paura, ma anche se è in parte vero non voglio che qualcuno lo sappia, infatti lo contraddico immediatamente. Alla fine mi faccio convincere e lascio che sia lui a occuparsi di tutto.

Ad un certo punto vedo arrivare il Griso e spero che mi dia delle belle notizie. Mi dice che Renzo e Lucia sono scappati al convento di Pescarenico. Che rabbia! Dev’essere tutta opera di quel maledettissimo frate, lo so, ma io gliela farò pagare. Come ho potuto farmeli scappare tutti e due? Mando subito il Griso al convento perché voglio assolutamente saperne di più su questa faccenda. Il Griso, tornato, mi riferisce che Renzo è a Milano e che Lucia è a Monza. Mando di nuovo il Griso a Monza mentre io con il mio avvocato, il dottor Azzecca-garbugli pensiamo a un modo per mettere nei guai Renzo.

Venerdì 13 Novembre 1628 Lecco (Serena Rubiano)

Sono a casa mia con Attilio e discutiamo sugli ultimi pettegolezzi che girano in paese: Renzo è riuscito a scappare dalla Polizia a Milano che veniva ricercato per aver commesso qualcosa di grave. Io sono molto compiaciuto degli ultimi avvenimenti, Renzo si merita tutto questo. Attilio, appena si calmò un po’ il tumulto, si reca a Milano per metter mano all’impegno di liberare il cugino del frate.
Subito dopo la sua partenza arrivò il Griso da Monza a dirmi che Lucia è in un convento lì a Monza con la madre. Mi disse anche che non usciva mai e che si comportava come una vera monaca quindi era davvero difficile rapirla. L’ira iniziò subito a prevalere su tutte le altre emozioni e per un attimo ho immaginato le cose peggiori su quella maledetta coppia. Non so proprio cosa fare. Mi è venuta un’idea ma non sono sicuro se possa andar bene o no. È un po’ azzardata secondo me perché si tratta di chiamare in mio aiuto un uomo o un diavolo che spesso fa cose pericolose. Potrebbe funzionare ma ci sono molti rischi che potrebbero impedire la buona riuscita del piano. Decido che per prendere decisioni così importanti è meglio rifletterci per più tempo.

 

Venerdì 1 Dicembre 1628 Lecco (Serena Rubiano)

L’inaspettato arrivo di una lettera da parte di Attilio e l’arrivo in paese di Agnese mi fecero finalmente convincere che era ora di chiamare quell’uomo. Poteva ancora essere rischioso ma ho deciso di provare e vedere come fa a finire tutta questa storia.
Così decido di andare al palazzotto dell’innominato a chiedergli se accetta la proposta di rapire Lucia per me. L’innominato accettò e promise di occuparsene lui con l’aiuto di Egidio, uno dei suoi più stretti collaboratori. Io sono abbastanza fiducioso perché l’innominato è uno di cui puoi fidarti, lui le promesse le mantiene. È il più grande criminale di sempre, riuscito in ogni sa impresa spero che non fallisca proprio in questa.

 

Giovedì 11 Dicembre 1628 Lecco e Milano (Denisa Istoc)

Sono felice perché Attilio è riuscito a mantenere la sua promessa cioè quella di convincere il conte zio a mandare in esilio Fra Cristoforo a Rimini. Non sono però riuscito a gustarmi per intero questa buona notizia che ne ho subito ricevuta un’altra spiacevole. L’innominato, il più grande criminale di tutti i tempi, proprio adesso si è convertito e di conseguenza ha liberato Lucia. Il mio piano escogitato da tempo non è riuscito solo per colpa sua che doveva convertirsi proprio adesso.
La sfortuna mi perseguita!
Ma non è finita qui, non solo l’innominato si è convertito, tutti in paese parlano di me e del mio insuccesso. E adesso non posso fare altro che scappare a Milano per la vergogna.

 

Fine Agosto 1630 Lecco (Denisa Istoc)

Sto tornando a casa dopo un festino celebrato per la morte di Attilio, il mio caro cugino… Che riposi in pace. Mi corico sul letto sentendo un grave senso di malessere e cerco di capire a cosa sia dovuto. Forse al caldo, al vino o agli stravizi ma il pensiero della pesta si insinua prepotente. Malgrado il dolore, riesco ad addormentarmi. Mi sveglio urlando pensando all’incubo appena fatto. Avevo sognato di trovarmi in una chiesa tra una folla raccapricciante e di rivedere l’incontro con Fra Cristoforo che avevo cercato di dimenticare. Nel frattempo guardo verso dove sento il dolore e scopro di avere un bubbone livido. Terrorizzato, chiamo il Griso pregandolo di andare a chiamare il chirurgo Chiodo che lo avrebbe curato. Ma il Griso, approfittandosi del mio malessere, mi disubbidisce e si rivolge ai monatti e con essi mi deruba. Ormai ho perso tutto, non posso più fidarmi di nessuno. Sono debole e arrabbiato ma non posso fare niente per sfogare la mia ira.  Oltre a tutto il male successo fin ora, la malattia si aggrava e perdo conoscenza.

 

Milano, agosto 1630  (Chiara Rossetti)

Caro diario, non ne posso più, veramente.                                                                                                                                                 Sto male già da troppo tempo, è da quattro giorni che sono in questo posto e sto soffrendo come un cane. Sono qui, in questa capanna, disteso su un materasso, se si può chiamare così, avvolto in un lenzuolo e rivestito da una specie di coperta.  Sono diventato irriconoscibile, direi addirittura spaventoso. Chiunque mi vede in queste condizioni si terrorizza. Sembro un cadavere, ho le labbra gonfie e nere, ho gli occhi sempre fissi su un punto e non ho neanche la forza per reagire, o quando cercano di parlarmi non riesco a rispondere. Tengo gli occhi aperti solo per miracolo, ma credo che questa sia la mia ultima pagina di diario prima di morire. Se non fosse per alcune contrazioni che delle volte mi attraversano, sembrerei davvero un morto. Spero di morire il prima possibile, e lo so che è brutto da dire, ma non ce la faccio più, preferisco andarmene piuttosto che soffrire in questo modo e farmi vedere in questo stato dalla gente. Non riesco quasi più a respirare, a parte alcuni affanni. Le mie dita stanno diventando di un colore nero, non so quale forza mi stia tenendo in vita. Mi devo rassegnare, la mia vita sta fnendo così, nel peggiore dei modi. Che poi io cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?

 

Blog di don Abbondio

 

7 novembre 1628 (Rebecca Crisalfi)

Buongiorno,

 

Il mio nome è Don Abbondio e sono qui a scrivere la prima pagina del mio diario personale, perché ormai era impossibile far tacere le mie paure, cosi ho deciso di manifestarle.

Tutto ebbe inizio ieri sera: stavo tornando a casa, come sempre, avevo con me il mio ufizio. Tra un salmo e l’altro mettevo l’indice per tenere il segno della mia lettura e mettevo il breviario dietro la schiena e continuavo tranquillamente la mia passeggiata dando calci qua e là ai ciottoli che incontravo lungo la strada .

E qui arriva il bello!! Ai lati del tabernacolo c’era una delle mie più grandi paure: I bravi!
Erano uno di fronte all’altro con indosso i loro vestiti che non lasciavano nulla all’immaginazione: tra piume, pistole e coltellacci, non potevo non capire che si trattasse di due criminali.
Così su due piedi presi la decisione di passarci accanto e far finta di non essermi accorto della loro presenza,  Ma il mio piano non andò a buon fine: nel momento in cui sono passavo davanti a loro, sentì uscir dalle loro bocche il mio nome.
In quel momento mi si gelò il sangue: i due bravi ebbero il coraggio di impormi di non sposare Renzo e Lucia e mi minacciarono quasi di morte, ma mi chiarirono di esser “galantuomini” e  mi dissero che li mandava un signorotto e fecero il suo nome: Don Rodrigo .Dal momento che non sono un uomo coraggioso gliel’ho data vinta e sono corso a casa spaventato.

(Rebecca Crisalfi)

Stamattina, al mio risveglio, parlai con Agnese e lei  mi consigliò di andare al paese perché sarebbe arrivato il Cardinal Federico Borromeo , allora decisi di seguire il suo consiglio e salii in sella al mio asinello e con un andamento  tranquillo mi diressi verso il paese. Quando arrivai vidi tantissima gente raggruppata attorno al cardinale, allora scesi dal mio asinello e mi incamminai verso colui che veniva venerato come se fosse un santo.

Quando arrivai sentii pronunciare il nome di Lucia Mondella e capii subito che il cardinal Borromeo stava cercando una persona che la conoscesse. Allora decisi di smettere di essere il solito vaso di terra cotta in mezzo a tanti vasi di ferro, presi coraggio e dissi al cardinal Borromeo che io conoscevo Lucia Mondella.

Subito il cardinale mi impose di salire in sella al mio asinello e di dirigermi con  lui verso il palazzo dove era rinchiusa la povera Lucia.

Durante il tragitto pensai tra me e me a quanto fosse spaventoso e imponente Don Rodrigo e quanto potessi sembrare un uomo poco coraggioso al suo fianco,  subito mi balenò nella mente cosa fosse successo alla povera Lucia . Arrivati al castello appena mi vide si rilasso penso per la famigliarità del mio viso. durante la giornata pensammo a dove mandare Lucia non potendo tornare a casa sua perché li ci sarebbe stato don Rodrigo ad aspettarla . ma decidemmo di portarla in casa di donna Prassede e suo marito che si sarebbero presi cura di lei . Agnese si diresse verso casa e Lucia andò nel paesetto senza alcun rischio.

 

UNA NOTTE  INGANNEVOLE

Casa mia, Notte del 10 novembre 1628  h. 21.00     (Annalisa Catania)

Oggi, 10 Novembre 1628, sono seduto sulla mia poltrona e ho deciso di raccontarvi la notte che mi è toccato passare, in cui Renzo e Lucia hanno provato ad ingannarmi intrufolandosi a casa mia grazie all’aiuto di Tonio e Gervaso. Spero così di mettere un po’ a tacere la mia paura scrivendo.

Questa notte, ancora provato dallo spavento ed un po’ febbricitante, ero seduto sulla mia poltrona e leggevo beatamente un panegirico in onore di San Carlo.
Tutto d’un tratto, era arrivata Perpetua, la quale mi aveva annunciato la visita di Tonio: Com’era possibile che mi disturbasse proprio a quell’ora della notte? Mi ero assicurato che fosse proprio lui, non volevo altre sorprese! Avevo sentito bussare, ero andato ad aprire lentamente la porta e davanti a me avevo visto Tonio con suo fratello Gervaso: questa visita mi aveva infastidito, d’altra parte ero malato, così avevo deciso di farglielo presente. Avevo un misto di curiosità, irrequietezza e paura, dopo tutto quello che avevo passato, e poi perché ha dovuto portarsi dietro il fratello proprio non l’ho capito! Tonio mi aveva riferito di essere stato lì per riscattare la collana, mi aveva assalito un dubbio: come mai riscattare la collana proprio a quell’ora della notte? Ma l’avevo scacciato via, tanto più che mi aveva chiesto anche la ricevuta; comunque avevo aperto un cassetto del tavolino, avevo preso carta, penna e calamaio e avevo iniziato a scrivere quanto chiesto. Avevo notato che Tonio e Gervasio si erano messi davanti a me tutti e due ritti, impedendomi la vista della porta d’ingresso, e facevano strani rumori con i piedi sul pavimento… non capivo…ma lasciavo correre. Avevo finito di scrivere, avevo piegato la carta richiesta e l’avevo consegnata a Tonio, ma nel frattempo, i due fratelli improvvisamente si erano divisi e in mezzo a loro erano apparsi Renzo e Lucia… povero me! La vista mi si era offuscata, poi misi a fuoco l’immagine mentre una rabbia mi assaliva e cercavo di trovare una ragione ed una soluzione per ciò che stava accadendo! Renzo pronunciava queste parole: “Signor curato, in presenza di questi testimoni questa è mia moglie” allora io, che avevo capito cosa volevano fare, avevo afferrato con la mano sinistra la lanterna e con la destra la tovaglia sul tavolo e avevo fatto cadere libro, carta e tutto ciò che c’era su di esso; Lucia era riuscita solamente a dire: ”E questo…” ma fortunatamente ero riuscito a farla tacere buttandole in testa il copritavolo. Avevo urlato il nome di Perpetua chiedendole di venirmi in aiuto. Lucia era  terrorizzata ed immobile, la lanterna si era  spenta in quella gran confusione, così ho cercato di mandare via tutti e di farli uscire dalla casa, ma non vedendo, non capivo dove mi stessi dirigendo, ho aperto la finestra e ho cominciato a chiamare aiuto a squarciagola, ma ahimè, non c’era nessuno. Per fortuna il mio sacrestano si era svegliato e si era chiesto cosa stesse succedendo; io l’avevo chiamato e avevo cercato di farlo accorrere al più presto e lui andò a suonare le campane a martello, contemporaneamente coloro che erano entrati con l’inganno se ne andarono. Avevo richiuso la finestra e avevo litigato con Perpetua che aveva permesso l’accaduto, non essendo stata abbastanza accorta.

La gente, che al suon delle campane era accorsa, aveva fatto molto rumore e si era domandata cosa fosse successo. Io ero spaventatissimo e fuori di me. Non ho più dormito… e mi sono messo qui a scrivere.

 

IL RIMPROVERO DEL CARDINALE FEDERIGO

Durante la visita del cardinale Federigo al paesello, 16 Dicembre 1628, h.16.00    (Annalisa Catania)

                

Oggi, 16 Dicembre 1628, durante la sua visita al paesello, il cardinale Federigo mi chiede di poter comunicare con me e ricevo subito un suo rimprovero poiché non ho unito in matrimonio Renzo e Lucia. Adesso vi racconto la vicenda nei particolari.

Finita la messa, mi reco subito dall’ospite, il cardinale Federigo, non conscio di ciò che mi aspetta, ma con qualche idea che mi ronza nella testa: sicuramente Renzo e Lucia hanno parlato, ed il cardinale Federigo, infatti, non mi ha smentito. Il cardinale va diretto al punto e mi chiede il motivo per il quale non ho riunito in matrimonio Renzo e Lucia; io esito nel rispondere e inizio ad arrampicarmi sugli specchi dicendo che ci sono stati troppi impicci; ovviamente lui mi riprende dicendo che non dovevo rifiutarmi, allora io gioco la carta dell’intimidazione e affermo che sono stato costretto ed obbligato a non farlo. Ma il cardinale non si accontenta di questa risposta, così cerco di tergiversare, moderando anche i miei toni e facendomi piccolo piccolo. Sottolineo che la mia stessa vita è stata messa in pericolo ma il cardinale mi risponde dicendo che non è una ragione sufficiente e mi dice addirittura che è un mio dovere unirli in matrimonio, un dovere legato all’abito che indosso, il quale non cessa dove inizia il pericolo. Il cardinale porta l’esempio di Cristo, che ha sacrificato la sua stessa vita per gli uomini: tutto ciò che mi dice, mi fa abbassare il capo, mi sento “come un pulcino tra gli artigli di un falco”, immerso in un’aria che non mi è familiare; ammetto i miei torti ma sottolineo nuovamente che colui con il quale mi scontro non ammette sconfitte. Il cardinale continua  a dire che proprio la sofferenza è legata alla nostra missione di servitori di Dio. Dentro di me ho una sorta di rabbia perché, in fondo, il cardinale ha “più a cuore l’amore di due giovani che la vita di un sacerdote”: ammetto allora di non essere un uomo coraggioso, ma lui rincara  la dose dicendo che dovevo pensarci prima di prendere i voti. L’ultima sua domanda è: “Che cosa hai fatto per loro?”, io abbasso la testa e resto in silenzio, sapendo che il rimorso mi avrebbe tormentato per il resto dei miei giorni…

 

L’ ARRIVO DEI LANZICHENECCHI 

Durante la fuga dal paese, 16 Marzo 1628, h. 10.00     (Annalisa Catania)

Oggi, 16 Marzo 1628, io e Perpetua siamo in ansia per l’arrivo dei lanzichenecchi, per questo abbiamo deciso di andare al castello dell’innominato, facendo una breve sosta alla casa del sarto.

Le voci che da un po’ di giorni girano non mi fanno stare tranquillo, anzi devo dire che sono quasi terrorizzato dall’arrivo dei lanzichenecchi: saranno sicuramente moltissimi! Tutti stanno cercando di recuperare i loro oggetti e di andare in posti più tranquilli sulle montagne, io invece sto cercando di organizzarmi con Perpetua, d’altra parte non ho nessuno che pensi a me. Guardo dalla finestra e mi accorgo che se ne stanno andando via tutti, forse sono in ritardo! Urlo: “Perpetua Perpetua…aiutami!” ma lei gira per la casa cercando di arraffare qualcosa di utile per una fuga precipitosa, così mi assale l’ansia e inizio a pensare ai miei soldi e ai soldi di Perpetua…dove li possiamo nascondere? Forse sotto il fico. Non so cosa succede in questi momenti, non mi è mai capitato e non so nemmeno cosa devo portare. Continuo a urlare il nome di Perpetua e finalmente lei mi da retta ma trattandomi malissimo, ha già pensato a tutto lei, come sempre. Decidiamo di partire, anche se non sappiamo ancora dove andare…in montagna non sarebbe una buona idea perché so che i lanzichenecchi sono già arrivati lì. Mi iniziano a tormentare i miei soliti dubbi…abbiamo preso tutto o abbiamo dimenticato qualcosa? Ma subito smetto di pensarci perché noto che le persone che incontro per strada non mi rivolgono neanche la parola, mi dicono solamente che sono fortunato perché non ho una famiglia a cui pensare, di non lamentarmi tanto e di fare ciò che è giusto. Mentre camminiamo i miei pensieri aumentano e decidiamo di andare nella casa del sarto, il quale già ci aveva offerto la sua ospitalità una volta. Strada facendo, la vista di quei luoghi ci fa tornare a pensieri lontani, e speriamo solo di riposarci un po’ per poi continuare il percorso verso il castello di ***. Arrivati alla casa del sarto ci accolgono a braccia aperte e provano anche a tranquillizzarci dicendo che qui dovrebbe essere un posto sicuro. Pranziamo insieme con quel poco che rimane: quattro pesche, un po’ di fichi e il cibo che aveva portato Perpetua. Io sono stupito poiché mi mettono un tovagliolo ed un piatto di ceramica in un posto d’onore…mi sento proprio riverito! Parliamo un po’ e mi accorgo che sono tutti impauriti, anche se mi garantiscono che al castello dell’innominato troveremo sicuramente un rifugio sicuro. Comincio ad essere un po’ in ansia quindi decido di mangiare in fretta e di interrompere le conversazioni…voglio partire! Saluto il sarto che mi offre alcuni libri in volgare e riparto con l’animo un po’ più leggero. Prima di partire mi hanno detto che i lanzichenecchi non dovrebbero arrivare fino a lì, però dei pensieri continuano ad angosciarmi: come saranno questi lanzichenecchi? somiglieranno a dei diavoli? I racconti della gente mi fanno paura, e la mia paura aumenta se penso che ho solo Perpetua vicino a me, anche se lei prova a rassicurarmi dicendo: “s’ingegnano gli altri; ci ingegneremo anche noi; crede…che vengon per far la guerra a lei i soldati?” Ho notizie che altre persone hanno trovato rifugio al castello, speriamo non siamo troppi, dicono anche che tutto il suo personale è stato messo a disposizione di chi cerca rifugio, così come tutte le stanze del castello sono state allibite a ricovero. Sicuramente la conversione del castello mi verrà utile, d’altra parte questa è la mia unica speranza! 

 

Lecco, 13 Ottobre 1631 (Paschetta Alessia)

Caro diario, scusa se non ti aggiorno da un po’, ma questi giorni hanno fatto parte di una grande svolta nella mia umile vita terrena da curato di un paesino. Infatti qualche giorno fa il giovane Tramaglino, dopo mille peripezie e con fare un po’ burlesco e rispettoso, è venuto da me per la faccenda del suo sposalizio chiedendomi i concerti, ma io ricordandomi di quel piccolo screzio avuto con Don Rodrigo e i suoi due bravi, ho incominciato a tentennare, a trovare scuse e ho avvisato il giovane del fatto che a quel punto tutto il paesino avrebbe saputo del “rapimento”. Allora lui, dopo avermi ricordato con tono scocciato del mio mal di testa perenne, ha iniziato a parlottare qualcosa sul Suo avere misericordia verso Don Rodrigo e sul fatto che così avrebbe potuto maritarsi senza alcun problema; ma io comunque, non essendo sicuro dell’ ascesa al Signore di Don Rodrigo e avendo quindi ancora paura, ho cercato di rimandare il tutto e ci sono riuscito, infatti il ragazzo era uscito dalla mia chiesa stanco e scocciato.

Qualche giorno dopo però ho incontrato Agnese, la madre delle “sposa“ di Tramaglino, e anche lei cercava di convincermi a celebrare il parentado ma io non ho ceduto… fino a quando non è arrivato lo “sposo” che, con voce affannata ma speranzosa, ci ha detto dell’ arrivo del marchese, l’ erede di Don Rod

incontro fra il Marchese e Don Abbondio

rigo, Pace all’anima sua. Allora io, ancora scettico, chiesi a Tramaglino se questo nuovo marchese fosse della stessa pasta di Don Rodrigo e lui mi rispose che è una persona estremamente buona e che ne aveva già sentito parlare bene in giro. Dunque io, con aria sollevata, gli ho detto che se la provvidenza ci aveva raggiunti è stata una grande cosa, un po’ come la peste che come una scopa ha spazzato via certi soggetti che, altrimenti, non ce ne liberavamo più.

Nei giorni successivi ho ricevuto la visita del marchese che si è mostrato affabile e generoso, e, avendo saputo dal cardinale Federigo della persecuzione di Don Rodrigo ai danni di Renzo e di Lucia, mi chiede il modo per riparare ai torti subiti dai due giovani e io, con aria soddisfatta, gli ho suggerito di acquistare i loro beni ad un prezzo equo, cosa che ha fatto il giorno dello sposalizo. Circa un mese fa,finalmente, ho finalmente sposato i Tramaglino e, giuro sul mio abito talare, che per una volta nella mia umile vita mi sono reso conto di avere fatto la scelta giusta e mi sono sentito finalmente sollevato. 

matrimonio tra Renzo e Lucia