Blog di Renzo Tramaglino

Mercoledì, 8 Novembre 1628. di mattina (Gamna Valentina)

Caro diario,
ne ho di cose da raccontarti quest’oggi…

Renzo Tramaglino

Stamattina, giorno che sarebbe dovuto essere il più bello della mia vita, si è rivelato l’inizio di un’odissea interminabile. Mi recai da don Abbondio per chiedergli a che ora avremmo dovuto ritrovarci in chiesa per celebrare il matrimonio: ebbene sì, oggi mi dovevo sposare con la mia amata Lucia, ma solo Dio sa cosa è capitato!
Arrivai a casa del furfante e subito gli chiesi a che ora sarebbe iniziata la cerimonia, anche se notavo che era nervoso, come se fosse impaurito, spaventato da qualcosa, o qualcuno, dopo tutto si sa com’è don Abbondio, non è mai stato un cuor di leone. Quando glielo chiesi, subito si innervosì e incominciò col dire che stava poco bene e che non avrebbe potuto celebrare il matrimonio.

don Abbondio: – Di che giorno volete parlare?-                                                                                                                                                        Renzo: – Come, di che giorno? non ricorda che s’è fissato per oggi?-                                                                                 don Abbondio: – Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta.                                                                                                                                                                                                                              don Abbondio: – Oggi, oggi… abbiate pazienza ma oggi non posso. –                                                                           Renzo: -Oggi non può! cos’è nato? –                                                                                                                                  don Abbondio: – Prima di tutto, non mi sento bene, vedete. –

 

Andai su tutte le furie e lui cominciò a farfugliare idiozie parlando di alcuni impedimenti ed imbrogli riguardanti il matrimonio.
Iniziò a pronunciare frasi in latino, ed io che conosco a malapena la mia lingua non capii nulla e non potei controbattere a quello che lui stava dicendo. Parlava di ricerche da svolgere prima del matrimonio per verificare che non vi fossero impedimenti, ma questa storia non mi piacque affatto, c’era qualcosa che non tornava…
Così ci accordammo ed entro una settimana non ci sarebbe stato più alcun impedimento, altrimenti se la sarebbe vista brutta, quel codardo!

 

don Abbondio

 

Ero uscito e mentre camminavo con malavoglia per recarmi a casa di Lucia e comunicarle la triste notizia, alzai lo sguardo e subito notai Perpetua, una specie di badante per don Abbondio.  Perpetua è una gran chiacchierona: mai raccontarle dei segreti o fatti personali! In pochi istanti tutto il paese sarebbe venuto al corrente di tutte le vostre faccende.

Allora capii subito che se don Abbondio aveva qualcosa da nascondere forse Perpetua ne sapeva qualcosa e sarebbe stato molto facile farglielo rivelare.

Mi diressi verso di lei e la salutai, poi le chiesi di spiegarmi meglio i motivi per cui la cerimonia non si poteva più celebrare, così lei accennò a dei segreti ed io capii subito che quel vigliacco mi aveva mentito,  disse poi che don Abbondio, il suo padrone, era innocente e che si trattava di prepotenti e birboni; mi convinsi sempre più che c’era qualcosa, o meglio, qualcuno sotto.

Provai a chiedere a Perpetua chi fosse quel prepotente, ma lei disse di non sapere niente e si rifugiò nell’orto chiudendo l’uscio.

Perpetua: -Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perchè… non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due-.

Così, su tutte le furie, tornai indietro e mi diressi da quel bugiardo di don Abbondio. Aappena entrato, gli domandai subito chi fosse il prepotente e lui subito si innervosì e si diresse verso l’uscio con l’intento di darsela a gambe, ma io fui più lesto di lui: chiusi la porta e misi la chiave in tasca. Non mi sarebbe sfuggito.

Senza accorgermi, forse per la rabbia, presi in mano lo spadino che avevo al fianco e lui si impaurì a morte, continuava a chiedermi di avere pietà e che se avesse parlato l’avrebbero ucciso. Dopo minuti e minuti di discorsi interminabili, mi disse finalmente il nome del birbone.

Era don Rodrigo! un furfante molto temuto nel mio paese.

Così, con furia, mi diressi alla casa di Lucia che si trovava un po’ fuori dal centro del paese.

Appena entrai nel cortile, sentii provenire del vociare dalle stanze superiori: erano probabilmente amiche e comari venute a far corteggio.

Dopo alcuni istanti la piccola Bettina mi corse incontro urlando e subito le intimai di fare silenzio e le diedi un incarico… le dissi di recarsi nelle stanze superiori dove vi era Lucia e di dirle assolutamente di scendere nella stanza terrena, così avrei potuto parlarle senza essere disturbati. Così Lucia scese ed io subito le  dissi, con il cuore a pezzi, che il matrimonio era stato impedito.

Renzo: – Lucia!- rispose Renzo , – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo essere marito e moglie-.

Lucia

Quando gli dissi però il nome di colui che l’aveva impedito, lei arrossì e tremò e disse che av

Lucia Mondella

eva avuto a che fare con quell’uomo, ma non mi volle raccontare nulla per il momento.

 

Così corse a chiamare Agnese, cioè sua madre, e le disse di venire da me, mentre lei avrebbe licenziato tutte le donne dicendo che il signor curato (don Abbondio) si era sentito male e che il matrimonio sarebbe stato rimandato.

Che dire, povero me… a volte penso che la mia vita potrebbe essere scritta su un romanzo per quanto è contorta.

 

 

Mercoledì 8 novembre, 1628. (Gamna)

Caro diario,

Oggi mi sono recato a Lecco, dall’avvocato Azzeccagarbugli, nonostante non circolino belle voci su quest’uomo, ho comunque tentato di risolvere la questione come suggerito da Agnese…

Non è servito a niente!

Ecco com’è andata…

Renzo Tramaglino e i quattro capponi da dare all’avvocato Azzeccagarbugli.

Stamattina Lucia mi ha raccontato cose orribili: don Rodrigo l’aveva importunata non una ma ben due volte!

Non appena sentii cosa era successo andai su tutte le furie, poi

Agnese mi calmò e mi consigliò di consultare una persona più esperta, una persona che avesse studiato, così mi consigliò di prendere i quattro capponi che avrebbe dovuto cucinare per il banchetto, aggiunse poi che non ci si doveva mai recare da quei signori a mani vuote, e avrei dovuto raccontargli tutto l’accaduto dopo di che lui ci avrebbe aiutati in un batter d’occhio… O almeno così doveva essere!

Lungo la strada non potei fare a meno di ripensare a tutti i fatti che erano successi in così poco tempo, ma cosa ho mai fatto io per meritarmi tutto questo?

Giunto al borgo, domandai dove si trovasse l’abitazione di quest’avvocato e mi fu indicata.

Avvocato Azzeccagarbugli

Quando giunsi domandai alla serva se fosse stato possibile parlare con l’avvocato (Agnese mi raccomandò di non nominarlo “Azzeccagarbugli”.) Subito il dottore mi fece accomodare nello studio mentre la serva prese i capponi.

Lo studio non era certo ciò che mi ero immaginato: Era pieno di polvere, di libri vecchi, e aveva l’aspetto molto rovinato e allo stesso tempo molto losco: sembrava che l’avvocato avesse qualcosa da nascondere.

Chiuse l’uscio e mi chiese quale fosse il mio caso. Indugiando gli chiesi se a minacciare un curato ( un prete) in modo che non celebri il matrimonio, si commetteva penale.

 

Lui, senza neppure farmi finire, disse di aver capito, tirò fuori una grida dell’anno precedente e iniziò a leggere, sembrava proprio il mio caso… Mentre leggeva però, mi chiese come mai mi fossi tagliato il ciuffo, (portare il ciuffo lungo è una caratteristica dei bravi, e il dottore mi scambiò per uno di loro!).

Quando gli dissi che il crimine era rivolto verso di me e non ero un birbone, ritirò subito il suo aiuto, per non parlare di quando dissi il nome di don Rodrigo! Subito mi accusò di non saper raccontare le faccende e mi spinse verso l’uscio. Secondo me le voci che circolano su questo “galantuomo” per una volta erano vere: Deve aver a che fare con criminali e gente losca! ah povero me! Li protegge! Altro che aiutava la brava gente!

 

Mi cacciò subito dallo studio e mentre uscivo chiamò la serva dicendo che da me non voleva proprio niente e le ordinò di restituirmi i quattro capponi. Ora devo tornare e raccontare tutto ad Agnese e alla mia povera Lucia, ma come farò? Ho visto una luce di speranza nei suoi occhi quando sua madre propose l’idea, e al solo pensiero che lei possa cadere nelle grinfie di quel dannato di don Rodrigo mi sento morire!

 

 

Fine Agosto 1630 (Gamna Valentina)

Caro diario,

raccontarti queste vicende non è per nulla facile. Ho passato le pene dell’inferno:  Da quando è arrivata la peste nel milanese, star qui è diventato un incubo! Mi sono ammalato anche io, per fortuna sono guarito da me, anche se non è stata una passeggiata, ma grazie al mio corpo robusto sono riuscito a scamparla. Guarendo, dopo pochi giorni, mi sono tornati alla mente e nell’anima tutti i ricordi, le speranze, ma soprattutto un pensiero, Lucia.  Ero preoccupato, ogni instante pregavo che lei non si ammalasse di peste, e che stesse bene, era l’unica cosa che desideravo, così finalmente presi la mia decisione: Era il momento di tornare da lei, e da Agnese. Così andai a salutare Bortolo mio cugino, che per tutto questo tempo mi aveva ospitato e dato un lavoro per potere sopravvivere, lui non si era ancora ammalato e cosi lo salutai solo dall’uscio della porta, gli feci i miei auguri, e gli dissi che sarei tornato, magari con Lucia.

Cosi facendomi forza partii prendendo tutti i risparmi che avevo ottenuto giorno per giorno, dei panni e il mio coltellaccio.

Mi avviai prima verso Lecco, per non andare subito a Milano dove si trovava Lucia, in modo da trovare magari Agnese e farmi raccontare qualcosa delle loro vicende.

Mentre ero in cammino vidi negli occhi della gente non ancora contaminata il timore di imbattersi nell’incubo della peste, la diffidenza che mostravano con le altre persone. Vidi anche gente sull’orlo della morte, ricoperta di sangue, morente. E infine notai gente come me risoluta, senza timore, poiché ammalarsi di peste due volte era cosa rara e prodigiosa.

Mi fermai in un boschetto a mangiar qualche cosa, un po’ di pane e di companatico che avevo portato con me e qualche frutta che coglievo andando avanti .

Verso sera giunsi al mio paese e mi colpì un sensazione di tristezza e di dolore per tutti i ricordi e per i presentimenti che in quel momento mi frullavano nella mente.

Ero impaurito al pensiero di dover andare a casa di Lucia, o forse meglio dire: “Casa di Agnese”.

Speravo di giungere là e di ritrovar Agnese viva, e in salute.

Decisi di non farmi vedere e di passar in una via al di fuori del paese. Là si trovava la mia vigna e la mia casa così decisi di passare da lì per controllare la situazione, andando avanti avevo il timore di incontrare qualcuno e così fu.

Notai che vi era un uomo con una camicia seduto e appoggiato ad una siepe di gelsomini, subito mi parve Gervaso ma poi osservando meglio capii che era Tonio! Lo salutai ma lui non mi riconobbe più era stato sfigurato dalla peste!

Decisi di proseguire rattristato e vidi una sagoma nera arrivare da un angolo, riconobbi subito chi era, era don Abbondio, che mi riconobbe.

Nonostante la rabbia che nutrivo nei suoi confronti dall’ultimo incontro, gli feci una riverenza, era pur sempre il mio curato.

Non perdetti nemmeno un istante e gli domandai se sapesse qualcosa di Lucia e Agnese, mi disse che Lucia si trovava a Milano ma per la grazie del cielo era ancora viva, mentre Agnese aveva lasciato il paese ed era andata a stare da dei suoi parenti in un paese chiamato Pasturo nella Valsassina dove la peste non si era ancora diffusa.

Gli chiesi poi di padre Cristoforo  e disse che anche lui se n’era andato.

Don Abbondio mi chiese poi che ci facevo da quelle parti e io gli dissi che ero venuto a controllare i fatti miei, mi disse di tornare da dove ero venuto a causa della cattura e della peste.

Poi a malincuore chiesi quanti morti vi erano stati a causa della peste e lui cominciando da perpetua nominò una filastrocca di persone, miei amici, parenti, e questo mi provocò un dolore immenso anche se me lo ero immaginato. Finita la  conversazione dissi a don Abbondio di non proferire a nessuno della mia presenza qua nel paese e lui borbottando se ne andò.

Pensai poi dove avrei potuto passare la notte visto che Agnese non era più in paese, e dalle persone che nominò don Abbondio riguardo la peste, vi era un’ intera famiglia di contadini sterminata, eccetto uno dei figli, un ragazzo della mia età con cui passavo del tempo quando ero bambino, così decisi di recarmi da lui. Mentre ero in cammino passai davanti alla mia vigna e subito potei notare da fuori in che stato era: non vi erano nemmeno più i gangheri del cancello, tutti i viti i gelsi  e i gli alberi da frutta erano stati usati per far legna in quei due inverni della mia assenza, vi erano ancora i vestigi dell’antica coltura, vi erano le erbacce che crescendo a dismisura sovrastavano tutte le coltivazioni, vi erano le ortiche anch’esse cresciute a dismisura come anche le felci.

Attraversai l’orto con le erbacce a metà gamba e mi avviai verso casa mia che poco distava da lì. Misi piede sulla soglia e cosa vidi..  Sul pavimento un sudiciume indicibile, le pareti scrostate e imbrattate cosi me ne andai anche da li con le mani nei capelli, ripercorrendo il sentieri che feci passando dal mio orto in mezzo a tutta quell’erba. Siccome iniziava a farsi buio mi incamminai verso casa del ragazzo di cui ti ho parlato prima, arrivai e lo trovai sull’uscio della dimora con lo sguardo distrutto, inselvatichito dalla solitudine. Quando mi vide mi scambio per un’altra persona cosi gli dissi che in realtà io ero Renzo e non appena capii gli si illuminarono gli occhi dalla felicità che aveva nel vedermi. Mi disse poi, anche se io lo sapevo già, che era rimasto solo, e così mi invitò ad entrare nella sua piccola casetta, cosi lui iniziò a farmi onore preparando la polenta e continuando a ripetere che era rimasto solo. Prese poi dell’altro cibo: un piccolo secchio di latte, carne secca un paio di raveggioli, fichi, pesche e ci mettemmo a tavola scambiandoci ringraziamenti lui della visita e io dell’ospitalità. Dopo cena andai a dormire, il mattino del giorno dopo mi trovavo in cucina io ero pronto per mettermi di nuovo in cammino, speravo di trovare Lucia ancora in vita altrimenti non so che cosa avrei fatto, sarei impazzito! Mi incamminai poi con tranquillità e decisione di arrivare a Milano e cominciar così le ricerche. Mi fermai di nuovo a mangiar in un boschetto del cibo che mi lasciò il mio caro amico. Passando da Monza presi due pani per non rimaner senza cibo, non si sa mai.

Verso sera arrivai in un paese di cui non conoscevo il nome e mi misi alla ricerca di un posto dove passare la notte pensai più ad un cascinotto dato che avevo avuto brutte esperienze con le osterie…

Entrai cosi nel cortile di una cascina, non c’era nessuno cosi vidi che vi era del fieno e mi sdraiai li e mi addormentai, mi svegliai solo all’alba e fortunatamente non vi era ancora nessuno così uscii come ero entrato e mi avviai verso Milano cosi usai come riferimento il duomo e dopo un brevissimo cammino giunsi alle porte di Milano…

Un bel cammino ho affrontato ma non è ancora finita caro diario… Ti terrò aggiornato sui fatti. Intanto continuo a pensare al momento in cui riabbraccerò la mia amata Lucia.

 

 

 

 

 

 

 

Milano, 26 agosto 1630 (Mauro Beatrice)

La mia mente era avvolta da mille pensieri e mille emozioni, il mio cuore era schiacciato dalla paura di perdere la mia amata e di non riuscire a risollevarmi da questa situazione, ma allo stesso tempo la mia guarigione mi rendeva felice.
Questa mattina mi sono svegliato determinato nel trovare Lucia approfittando del subbuglio causato dalla peste, per condurla a Pescarenico, dove avremmo iniziato la nostra nuova vita.

All’imbrunire non c’erano tracce di vita nella stradina in cui mi trovavo e le mie gambe cominciavano a sentire il peso di una lunga giornata quando vidi con la coda dell’occhio le mura della città. Mentre percorrevo le vie di Pescarenico cominciavo a sentire il vento di settembre sostituirsi al caldo torrido di agosto. Giunto nella piazzetta della chiesa una serie di reminescenze tornarono alla mente come se non se ne fossero mai andate. Mi appariva chiara la triste immagine di Don Abbondio che tentava di sottrarsi al celebrare il matrimonio a sorpresa pianificato da Agnese, allarmando tutti i paesani in modo che accorressero in piazza.
A pochi passi dell’abitazione di Lucia appariva evidente che le due donne se n’erano andate.
Svoltato l’angolo vidi un uomo disteso a terra. Aveva l’aspetto di un matto in fin di vita, i bubboni giallognoli sul viso ne rendevano evidente la casa. Mi sono avvicinato per capire chi fosse e mi sono resa conto che era Tonio.

Continuando per la mia strada ho visto avanzare una figura, non era un volto nuovo; indossava un abito nero ed il suo volto pallido mostrava i segni dell’epidemia. Riconoscendo in essa Don Abbondio, mi sono avvicinato e facendo una riverenza gli ho chiesto subito novelle di Lucia e Agnese.

Le parole del Curato aimè non sono state confortanti, mi ha comunicato che la mia promessa sposa si trovava a Milano ed Agnese a Pasturo, un Paese vicino

Per ultiumo Don Abbondio mi disse di tornare nel Paese cui ero venuto per non finire in grane spiacevoli siccome ho ancora un mandato di cattura; poi tra un lamento e l’altro causato dalla peste mi ha elencato tutte le famiglie di contadini morte appestate salvo un contadino della mia età la cui casa si trovava qualche passo fuori dal Paese e pensai di dirigermi lì.

Sono passato davanti alla mia vigna e camminando da fuori ho subito potuto dedurre le condizioni in cui si trovava. Tutto era diverso da come l’avevo lasciato. Vetticciole sradicate, una fronda d’albero caduta che bloccava il passaggio, del cancello non c’erano più i cardini, i segni dell’antica coltivazione erano stati soffocati da erbacce di ogni genere, ovunque i rovi impedivano il passaggio. Tutto era stato strappato alla peggio poichè per due inverni di seguito la gente del Paese era andata a procurarsi la legna per scaldarsi. Era un guazzabuglio di steli che cercavano di superarsi. ” Mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio”.  In quella marmaglia di piante ce n’erano alcune di più imponenti e vigorose, era l’uva selvatica ed era più alta di tutto il resto, aveva pompose foglie color verdecupo alcune rossicce sui bordi, il frutto stava maturando, rossi in basso, color porpora nel mezzo e in cima verde acerbo. A sinistra delle viti c’era una pianta di Verbasco che, con lo stelo diritto in aria e le sue gran foglie lanose, aveva coperto il cancello scardinato

Ora si è fatto tardi, vado a pregare l’Altissimo di accompagnarmi in questa avventura e domattina proseguiró la trascrizione del mio diario personale.

 

 

Milano, 2 settembre 1628, Ore:21.47   (Sara Monge)

 

È sera, ho appena finito di cenare e sto per mettermi a dormire, ma prima volevo raccontarti la giornata di oggi… sono tornato a Milano per cercare Lucia.

 

Sto camminando per le strade di Milano in mezzo a tanta confusione, ci sono tante persone fuori di sé, ma vedo ancora gente che accompagna i loro familiari al lazzaretto, con parole di contforto. Ad un certo punto fermo un monatto e gli chiedo dove si trova la casa di Don Ferrante, ma non mi ha dato una risposta. Allora poco dopo scruto un commissario e gli chiedo pure a lui quale fosse la dimora di Don Ferrante, quest’uomo mi ha gentilmente indicato la strada e ho trovato la casa senza nessun problema.

Busso alla porta e dopo qualche momento si apre una finestra, vedo affacciarsi una bella signora con una faccia stranita, probabilmente si sta chiedendo chi sono e cosa voglio. Io, senza perdere troppo tempo, le chiedo, con voce un po’ tremolante, se si trova lì una donna di nome Lucia. Lei frettolosamente mi dice che non c’è più, mentre sta per afferrare la finestra e chiuderla io le domando ancora dove si è recata la fanciulla, lei mi dice che è andata al lazzaretto. Stava per chiudere nuovamente la finestra quando le chiedo se aveva la peste e la signora un po’ scocciata e con una smorfia mi ha detto di sì e di andarmene. Io insistente chiedo se era molto malata, ma la signora chiude la finestra senza rispondere. Così preso dall’ira per la scoperta di questa notizia e da come mi è stata data ho iniziato a bussare ripetutamente e con più forza alla porta. Mi giro per vedere se trovo qualcuno da cui recuperare alcune informazioni più precise su Lucia e a più o meno venti passi c’era una donna che esprimeva terrore, pensa che sono un untore. In quel momento si affaccia alla finestra la donna sgarbata di prima e inizia ad urlare che sono un untore così tutti la guardano e io in quel momento di distrazione scappo. Sento delle persone rincorrermi per prendermi e non so quando si fermeranno…   Non ce la faccio più a correre allora sfodero il mio coltello, mi giro facendo sembrare che sono sicuro di me anche se dentro ho una paura tremenda e dico: “chi ha cuore, venga avanti, canaglia! Che l’ungerò io davvero con questo.”

Adesso sono molto stanco, è stata una lunghissima giornata. Vado a riposarmi, proseguirò il mio racconto appena avrò un po’ di tempo libero.

 

 

Milano, 3 settembre 1630 (Panero Carlotta)
Io sono Renzo, anche io sono stato malato della terribile peste nera, ma per fortuna sono riuscito a guarire e adesso sono immune dalla malattia. Oggi ho deciso di raccontare le raccapriccianti scene, causate dalla peste, che ho visto a Milano.

Ero appena entrato in Milano e già avevo visto molte scene e malati disperati per le strade. Grazie ai monatti, che raccoglievano i cadaveri e li portavano al lazzaretto, per le strade di Milano non ce n’erano molti che odoravano e che rischiavano di essere calpestati. Dalle case si sentivano i terribili e tristi lamenti dei malati o dei parenti che si disperavano per loro, solo a sentire quei lamenti mi venivano i brividi e mi si spezzava il cuore, anche perché se il Signore non mi avesse aiutato a guarire, potevo essere anche io in quelle condizioni. Le poche persone ancora non ammalate restavano chiuse in casa per paura di prendere la peste e incontrare gli untori. Anche le persone sane, oltre ai malati, erano diventati dei poveracci e non si preoccupavano più del loro aspetto o comportamento. Anche gli uomini più qualificati andavano in giro con la barba e capelli lunghi, cosa che prima non facevano, ed erano senza cappa ne mantello, parte essenziale nel vestiario civile. Camminare per le vie di Milano era orribile e triste perché in giro si vedevano solo malati che chiedevano aiuto oppure i monatti che con i loro carri passavano a prendere i cadaveri delle povere persone uccise dalla peste.
Mentre camminavo in cerca di Lucia vidi una scena che mi gelò il sangue…c’era una signora il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, e si notava una bellezza offuscata e trascurata dal tanto dolore e dalle tante lacrime versate, non faceva vedere che era triste e affaticata, ma si capiva molto bene vedendo anche la sua andatura. Portava in braccio una bambina di forse nove anni, purtroppo questa piccola bella bimba era morta. La bimba era ben vestita con un vestitino bianco e i capelli pettinati e divisi sulla fronte, sembrava che la mamma l’avesse vestita e curata per una festa importante. Solo da una manina bianchissima che penzolava da una parte e il capo che posava sul braccio della madre con un abbandono più forte del sonno, si riusciva a capire che per sfortuna quella graziosa e ben vestita bambina era morta. La mamma non la teneva a giacere come se fosse morta, ma la teneva retta sul braccio e con il petto appoggiato al suo. Il monatto, che si era fermato con il suo carro ad aspettare la bambina, cercò di prendere bambina per appoggiarla sul carretto, ma la madre fece un passo indietro e gli disse che voleva adagiarla lei e che lui poteva solo prendere la borsa che gli stava dando. La povera donna fece promettere al monatto di prendersi cura di lei e di metterla sotto terra così com’era, il monatto quasi dispiaciuto e commosso per la scena glielo promise; poi la mamma la adagiò sul carro e le stese sopra un panno bianco per coprirla. La salutò per l’ultima volta “Addio, Cecilia!riposa in pace! stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi il carro andò via e la mamma ritornò in casa e io ricominciai triste e sconfortato a camminare.

 

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