Blog della mercantessa

 

Lucia e la mercantessa nel lazzaretto

Lazzaretto di Milano, 1 Giugno 1630     (Bonino Chiara)

Ciao a tutti, sono la mercantessa, una donna vedova e senza neanche più un figlio.  I miei cari sono morti per la stessa ragione per cui io mi trovo nel lazzaretto: la peste.                                                                                                Nella stessa mia capanna c’é una giovine ragazza, che proviene dalla provincia di Lecco. Si chiama Lucia, e mi tiene compagnia in questi giorni di agonia. E’ una ragazza molto affettuosa, vorrei avere una figlia come lei.. ma, mi ha raccontato del suo promesso sposo che dovrebbe arrivare a momenti, non vedo l’ora di conoscerlo!                              Nella conversazione tra Renzo e Lucia non ho capito molto, parlavano di un voto e che non si potevano più sposare. Appena il giovane se ne andò chiesi spiegazioni a Lucia, che mi raccontò la vicenda piangendo disperatamente: aveva fatto un voto alla vergine: se fosse riuscita a uscire dalla casa dell’Innominato, non avrebbe più sposato Renzo! Cercai di consolarla e le dissi che tutto andrà bene.

Blog del sarto

Nel castello dell’ Innominato e nel paese vicino al suo: 9 novembre 1628, Mattino (Nicotra Gaia)

Arrivo dopo un viaggio disagevole a bordo di una lettiga, tra me e me penso alla buona azione che sto per compiere e cerco d’immaginare il volto della ragazza che sto per incontrare, mi sento combattuta tra paura e fierezza. Quel sentimento misto di curiosità e impazienza con il dubbio che continuo a ripetermi :” Sarò in grado di aiutarla veramente e soprattutto lei vorrà il mio aiuto?”.

Arrivo con Don Abbondio alla porta del castelletto, bussiamo,  entriamo, mentre una vecchia esce e ci saluta. In un angolo vedo una giovane ragazza, magra, spaventata e molto turbata dalla nostra presenza, come chi vive in un continuo stato di tensione e paura per ogni cambiamento. Lei ripete con le labbra contratte e tremanti: ” tutta quella gente…? quel signore…! quell’uomo…! Già me l’ aveva promesso…”

Don Abbondio accanto a me cerca di non perdere tempo e la sprona ad andare via. Io vedendo il terrore negli occhi della ragazza cerco di rassicurarla, le dico che l’uomo che lei tanto teme (l’Innominato) è cambiato: “Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono?”. Si alza, le porgo il mio braccio per aiutarla, arriviamo nel cortile e finalmente Lucia sale sulla lettiga e partiamo. Chiudo le tende della lettiga, prendo le mani di Lucia tra le mie in modo da farla sentire protetta e le dico il nome del paese in cui ci dirigiamo, lei mi risponde: ” Ah Madonna santissima, vi ringrazio! mia madre! mia madre! La rassicuro dicendole che saremo subito andate a cercarla. Lucia mi chiede chi io sia e la motivazione per cui mi trovo li con lei; allora inizio a raccontarle tutta la storia: che l’Innominato pentito delle sue malefatte si è rivolto all’Arcivescovo raccontando del rapimento e volendo porvi rimedio, chiedendo aiuto per la liberazione di Lucia.

A queste parole Lucia si sente sollevata e di questo mi rallegro moltissimo.

Avrei voglia di chiederle della sua storia ma non me la sento, non mi sembra il caso, non è questo il mio compito.

Lucia si addormenta.

Arrivate a casa,  entriamo e faccio sedere Lucia nell’angolo più tranquillo e comodo della cucina; cerco di cucinare qualcosa che posso piacerle, preparo del brodo con delle fette di pane caldo, a ogni cucchiaiata vedo che la ragazza si risollevava sempre di più, cominciando a toccarsi i capelli sembrava quasi volesse consolarsi e si ritrova più distesa tant’è che la paura finalmente sembra lasciare spazio a una apparente tranquillità.

 

Casa del sarto, il 10 novembre 1628 (Scalzo Rossella)

Tutto d’un tratto, mentre osservo la povera Lucia in preghiera, sento giungere dall’esterno le voci dei miei tre figli, accompagnati dal padre, di ritorno dalla chiesa.

Entrando in casa notano la presenza della nostra ospite, insospettiti, mi raggiungono nell’altra stanza per ottenere qualche informazione su di lei.

Io rispondo a tutti i loro quesiti con un zitti, zitti” e pochi istanti dopo vedo entrare con il suo classico passo quieto mio marito. Gli ho presentato Lucia che, imbarazzata dalla situazione inizia a balbettare qualche scusa che giustifichi il fatto che si trovi in casa nostra.

Mio marito, educato come sempre, la interrompe senza farle finire la frase ed esclama a gran voce: “Benvenuta, benvenuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa.”

Mentre preparo da mangiare penso al triste periodo che sta affrontando la povera ragazza, durante la cottura del cappone mi reco da lei per vedere come sta e dialogare. Mi rivela che le manca Renzo ma che tutti questi problemi mettono a dura prova la sua salute.

Poco dopo, torno in cucina a controllare il cappone che è pronto per esser messo in tavola, mi reco da Lucia e la invito a sedersi a tavola con noi.

Finito il pasto, la mia figliola stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo e un fiaschetto di vino lo portò a Maria vedova.

Sento bussare alla porta di casa, si tratta del curato del paese, dice di essere stato mandato dal cardinale per avvertire Lucia che vuole vederla oggi stesso e ringraziare me e mio marito.

Finalmente Agnese si reca a casa nostra e Lucia emozionata dal suo arrivo si alza precipitosamente verso di lei e l’abbraccia.

Qualche ora dopo il cardinale chiede personalmente a me e mio marito se siamo disposti ad ospitare per quale giorno le due donne e quest’ultimo emozionato e in cerca di una risposta adeguata riesce solo a rispondere “si figuri.”

Così terminò quella giornata tanto celebre.

 

 

 

 

Blog su donna Prassede

Donna Prassede e Lucia

Provincia di Lecco, 2 dicembre 1629 (Bonino Chiara)

Ciao, sono donna Prassede, una ricca donna sposata, intenta a far del bene. Abito nella provincia di Lecco e ho sentito parlare di una giovine promessa sposa a un tale delinquente, poverina. Sono così curiosa che ho chiesto di incontrarla, e le ho mandato un bracciere a prendere la giovine con sua madre. Entrambe molto timide, ma dopo poco si sentirono a loro agio, e dopo una chiacchierata ho pensato che sia una bella idea quella di ospitare Lucia nella mia casa a Milano, così da aiutare cardinal Borromeo a trovare dimora alla giovine. Nei giorni in cui Lucia dimorerà a casa mia, credo che cercherò di farla ragionare sul suo promesso sposo. Lui è un delinquente, poco di buono, sedizioso, uno scampaforca, e devo farglielo dimenticare. Rinnovai le gentilezze e le promesse e dissi che avrei mandato subito una lettera da presentare a monsignore, per ospitare Lucia. Dopo averle salutate, ho chiesto subito a mio marito Don Ferrante di scrivere una lettera a cardinal Borromeo. Quest’ultimo accettò, e tra qualche giorno arriverà la giovine a casa mia.

 

Milano, 5 Marzo 1630 (Bonino Chiara)

Ormai sono 3 mesi che Lucia dimora a casa mia. Ho provato molte volte a fargli cambiare idea del suo sposo. Ma, aimè, lei ha le idee ben chiare in testa. Quando si ha nel cuore uno scapestrato non si leva più.  Ho cercato di farle dire le buffonate che ha fatto quel mascalzone, ma la giovine mi rispondeva vagamente: la sua voce era tremante e piena di dolore. Mi ha detto che Renzo nel suo paesetto non aveva fatto mai nulla di male, anzi mi ha detto che parlavano bene di lui. Lo ha difeso anche per i fatti successi a Milano, anche se lei non è nemmeno bene al corrente di quel che è successo. Ma da queste apologie io ho cercato di convincerla che il suo cuore è ancora pieno di lui. Lì ho capito che era innamorata. Quando si è innamorati non puoi far separare due persone perchè uno è un mascalzone che ha fatto il delinquente a Milano. Renzo e Lucia sono due promessi sposi, anche se non si vedono da tanto e sono lontani. Non sanno nemmeno se si rivedranno mai più: la peste sta arrivando in città.

PAGINA DI ESEMPIO

Seguite per favore queste istruzioni!!!!

  1. Aprite la pagina già creata che vi riguarda. Per esempio se a me hanno assegnato FRA CRISTOFORO (ok??? Fra Cristoforo!!!) apro la pagina che si chiama BLOG DI FRA CRISTOFORO che esiste già!!!!!!!!!!! NOn ne creo una nuova!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! come devo dirvelo??????????????????????????

Bene. Apro la pagina suddetta.

2. Scrivo DUE non UNO, DUEEEEEE!!!!!!!!!!!!!!!! articoli preceduti dalla data e dal mio nome tra parentesi. Faccio l’esempio, pronti???? Leggete !!!!

ESEMPIO

Milano 8 dicembre 1628, ore 10:00 (scritto da XXXX YYYY)

bla bla bla bla bla (qui scriverete il vostro PRIMO articolo) bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla bla bla (qui scriverete il vostro articolo) bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla (qui scriverete il vostro articolo) bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla

Milano 9 dicembre 1628 (scritto da XXX YYY)

bla bla bla bla bla (qui scriverete il vostro SECONDO articolo) bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla (qui scriverete il vostro articolo) bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla bla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla blabla bla bla bla

 

Entrambi qui, sulla stessa pagina. Come, per esempio, ha fatto per bene Panero.

Se volete aggiungete una foto e poi BASTA!!!! Finito qui!!!!

Avete capito?

Blog di Gertrude

Monza, 5 maggio 1628, Ore:8.08   (Sara Monge)

 

Ciao, sono Gertrude, ma tutti mi chiamano “la Monaca di Monza”.
È mattino presto, mi sono appena svegliata e non so cosa fare. Mi è venuto in mente di scrivere un blog, perciò adesso vi racconto cos’è successo ieri… è stata proprio una giornata particolare.

 

Sono seduta su uno sgabello durissimo dritta dietro a una grata, con una mano bianchissima e languida appoggiata ad essa, con le dita intrecciate negli spazi vuoti. Nel mentre vedo entrare il padre Guardiano con due donne: una giovane e l’altra evidentemente più anziana. Tutte le persone mi chiamano “la signora”,mi portano rispetto e mi temono perché provengo da una famiglia molto importante, appunto il padre guardiano per parlarmi abbassa la testa, mette la mano sul petto e mi dice con un tono di voce basso e calmo “questa è la povera ragazza per la quale mi hai fatto sperare molto di poterle dare aiuto e proteggerla, l’altra è sua madre.” Le due iniziano a fare inchini e io con un cenno della mano le faccio smettere e mi rivolgo subito al padre Guardiano dicendo che fare favori ai nostri amici frati cappuccini è un piacere per me, ma voglio saperne di più di cos’è successo a questa povera ragazza che è perfino dovuta fuggire dal suo paese per venire fino a qua in convento a Monza. Agnese, la madre della giovane Lucia, inizia a parlare ma io mi sto innervosendo perché voglio farmi raccontare tutta la storia con tutti i particolari dalla ragazza, non dalla signora perché senza ombra di dubbio Lucia la racconterebbe molto meglio dato che ha vissuto questa disgrazia in  prima persona.  Così mando via Agnese e il padre Guardiano. Mentre i due escono io lo informo che alla vecchia e alla ragazza lasciamo la camera della Fattoressa che ormai è maritata e quindi se ne deve andare.  Rimaste sole, io e Lucia, iniziamo a parlare e più mi racconta più sono curiosa, cosi le chiedo di raccontarmi tutto nei minimi particolari. Lei all’inizio è stata abbastanza timida, ma poi, pian piano, si è lasciata andare e abbiamo dialogato per moltissimo tempo.  

 

 

 

Monza, 7 maggio 1628, Ore:3.52 (Sara Monge)
È notte fonda e non riesco a dormire, allora ho deciso di raccontarvi brevemente la storia della mia infanzia, capirete magari il motivo di qualche mio comportamento, ad esempio la curiosità…

 

Sono l’ultima figlia del principe ***, un gentiluomo ricco milanese. Quest’uomo era tanto bravo tanto menefreghista appunto già prima che io nascessi aveva deciso la mia sorte: dovevo diventare monaca o frate, in poche parole bastava la mia presenza. Non importava a nessuno di che sesso fossi, ancor di meno la mia volontà, l’importante era che facessi parte della chiesa. Quando sono nata hanno deciso di chiamarmi Gertrude perché è un nome portato da una santa. Mi ricordo ancora molto bene quel giorno, ero piccolina…

È mattino e vedo entrare mio padre nella mia stanza con dei regali, sono un po’ perplessa perché non c’è nessuna festività in questi giorni, ma sono comunque felicissima. Inizio a spacchettare e trovo delle bambole vestite da monache e anche dei santini che rappresentavano sempre delle monache. Ho intuito che era fatto apposta, ma non sono stata a farmi tante domande e ho iniziato a giocare. Mio padre mi guarda sorridendo, si gira e esce dalla camera.

Già da giovanissima mi hanno portato al monastero di Monza per imparare l’educazione e per autonomasia mi chiamano “la signorina”. Sono passati un po’ di anni nel monastero perciò devo diventare pure io una monaca come le altre. Ma prima di essere chiamata con il nome “monaca” dovevo essere esaminata da un ecclesiastico chiamato “il vicario delle monache” così è sicuro che ci vado di mia volontà e non obbligata da altra gente . Questo esame non poteva essere svolto, se non un anno dopo aver inviato a quel vicario il mio desiderio, con supplica per iscritto. Questa prassi veniva applicata con tutte le monache ovviamente. Dopo circa un anno dal l’invio della lettera mi avvisarono che c’era un’ultima legge, cioè che dovevo trascorrere un mese fuori dal monastero dove sono stata istruita,  perciò sono stata costretta a ritornare alla casa dove ho passato i primi anni della mia infanzia. Ma stavo cercando qualsiasi modo per non diventare monaca, perciò mi sono rivolta a una mia compagna, la quale mi ha suggerito di dire tutto a mio padre con una lettera. Ho tentato, ma non ho mai avuto risposta, forse non l’ha neanche ricevuta. Arrivò il mio temuto giorno… il ritorno a casa. Sono 8 anni che non tornavo, sono pena di gioia, ho quasi le lacrime agli occhi per la felicità, avevo avuto un po’ di malinconia in questi anni. Nei giorni trascorsi a casa spero di continuo di poter parlare con qualcuno, invece era peggio che in monastero!!! Nessuno mi rivolge la parola tranne un paggio che mi porta rispetto, non ce la faccio più. Segretamente io e il mio nuovo amico paggio iniziamo a scambiarci delle lettere, finché un giorno una cameriera mi sorprende piegare una lettera e incuriosita me la toglie dalle mani. Legge tutto e in seguito la consegna a mio padre. Sento già i passi del principe e inizio a tremare come come non mai, ero terrorizzata, non ho mai avuto così tanta paura. Sarebbe stato capace di tutto. Mi ha rinchiuso in una stanza sorvegliata dalla cameriera ficcanaso che ha scoperto delle lettere che mi scambiavo con il paggio. Tra l’altro, questa donna, era insopportabile, antipatica e permalosa. Mi sto sento in colpa perché non ho più notizie del paggio, ma immagino che non lavori più qua, mio padre, conoscendolo, l’avrà sfrattato. Passato un po’ di tempo capisco l’enorme errore che ho commesso e all’ora scrivo una lettera con sincere scuse a mio padre.

 

Ora cerco di prendere un po’ sonno che domani mattina mi devo svegliare presto. La prossima volta continuerò a raccontarvi la mia storia. 

BLOG SULLA PESTE NERA

 

Milano, autunno del 1629 (Martina Trucco)

i Lanzichenecchi, soldati arruolati da legioni tedesche, penetrati attraverso la Valtellina, sono giunti fino a Mantova e l’hanno assediata. Purtroppo con il loro arrivo si è sviluppata una terribile epidemia di peste: Quasi  tutta la Lombardia e Milano sono contagiate.

Io mi chiamo Alessandro e sono un mercante milanese, dunque non me ne intendo molto della questione, ma parlando con la gente della città durante i miei viaggi ho scoperto che la peste è una malattia infettiva che sta decimando la popolazione.  Quest’epidemia si è propagata molto facilmente soprattutto perché Milano in questo periodo è una città molto povera a causa dell’ultima carestia per la guerra del pane e la gente è debole, sfinita.

Un famoso medico di cui ho sentito parlare è Lodovico Settala, che ha provato ad informare il Tribunale di Sanità che la peste si sta diffondendo in tutto il territorio;  alcuni funzionari si sono recati in vari paesi del territorio di Lecco riscontrando molti casi di contagio, a quel punto, le autorità di Milano hanno iniziato a formare un cordone sanitario attorno alla città, per impedire alle persone provenienti dai paesi in cui sono stati registrati casi di malattia di entrare a Milano, ma questa prevenzione è stata applicata troppo tardi, e ora tutta la città è infetta.

 

Milano, 11 Dicembre 1629 (Martina Trucco)

Arrivo alle porte della città, la nebbia rende l’atmosfera ancora più lugubre e terrificante; da lontano intravedo delle ombre che si avvicinano nel viale. Poi sento un suono particolare come di campanelli che si avvicinano sempre di più, le sagome si fanno più nitide: sono quattro persone vestite di stracci con ai piedi delle cavigliere con dei sonagli: trascinano faticosamente un carretto con i cadaveri di decine di infelici. Mi ricordo che qualcuno mi ha parlato dei “Monatti”, devono essere loro, quindi cerco riparo perché temo il contagio. Queste persone fanno tale lavoro per recuperare di casa in casa i corpi dei morti. Mi riparo in un uscio e intanto osservo la scena: da una delle porte si affaccia una donna pallida che sorregge un piccolo corpicino,- sicuramente è sua figlia-  gli individui del carretto si avvicinano a lei la salutano e la chiamano Cecilia. Questa donna non consegna  il corpo di sua figlia, ma lo ripone lei stessa con tutto l’amore possibile. Aspetto che il carretto vada via, poi ritorno a camminare: le vie sono deserte, solo qua e là si sentono voci sommesse e a tratti urla e grida; le case hanno tutte le finestre sbarrate. Forse gli abitanti non esistono più o forse sono dentro malati, la vita in città sembra essersi fermata, i forni sono fermi, non c’è più pane: si combatte anche per la fame e non solo contro la peste.

Le poche persone che incontro mi guardano con diffidenza, non è rimasto più nulla della meravigliosa città che avevo incontrato qualche anno fa. Mi chiedo se saranno tutti morti o qualcuno si sarà salvato.

Poco oltre incontro una vecchietta, confido nella sua saggezza e nella sua pazienza, e le chiedo dov’è tutta la gente, ma quella mi risponde che chi è sopravvissuto se n’è andato via dalla città oppure sta aiutando i malati. Quest’ultimi sono stati portati in un luogo chiamato Lazzaretto: è una costruzione quadrangolare molto vasta in cui si rifugiano i malati. Alcuni di loro sopravvivono e diventano immuni alla malattia, la maggior parte invece muore. Nessuno sa di preciso come avvenga il contagio: c’è invece chi pensa che ci siano delle persone chiamate “Untori” che infettano le porte delle case strofinandoci sopra i vestiti dei malati perché lo facciano non lo so.

Mi rendo conto che non potrò più fare il mercante perché in questa città il commercio è ormai fermo, decido quindi di andare a visitare il Lazzaretto, e trovo un uomo con la barba bianca e vestito da frate che aiuta i più deboli, e con questa immagine mi allontano per timore che la malattia mi possa contagiare.

Immagine correlata

 

BLOG SULLA VITA nella Milano del XVII secolo

Milano, 11 novembre 1628 (Chiara Rossetti)

Caro diario, io sono un pover uomo, un semplice panettiere che lavora in un forno in centro Milano, e sono qui per raccontarti un evento che mi è capitato stamattina.

Tutto questo è successo perché Ferrer, il cancelliere, ha fissato un calmiere sul prezzo del grano, ma noi fornai, ovviamente, abbiamo protestato perché siamo obbligati a produrre pane in continuazione e, oltretutto, il grano scarseggia, perciò abbiamo protestato e alla fine il calmiere è stato revocato. Quindi il popolo si è infuriato e ha iniziato a assalire i forni. Oggi hanno veramente superato ogni limite.

Siamo nel pieno della rivolta del pane, e tutta la gente si precipita sui forni di noi poveri lavoratori. Oggi mi sono svegliato, e sentivo che non sarebbe andato tutto per il verso giusto, infatti così è stato. Stamani, verso le 5, mi sono messo al lavoro nel mio forno ed era ancora tutto tranquillo. Poi, verso le 9.30, ho iniziato a sentire le prime grida dalla piazzetta qui accanto, e già immaginavo cosa poteva essere. Ho iniziato a chiudere le porte e ho continuato a lavorare. Alle 10:00, inavvertitamente, una folla inferocita di gente si è scaraventata sulle porte e ha iniziato a lanciare sassi e bastoni, a imprecare e dare pugni. A quel punto, io, con l’aiuto di altri uomini, ho cercato di allontanare il più possibile la gente, anche distribuendo pane per tenerli buoni e farli calmare, ma, anche in quel caso, i rivoltosi erano così disperati che hanno iniziato a scagliare sassi anche contro le guardie. Allora il capitano di giustizia ha preso il sopravvento, provando a tranquillizzare e rassicurare la folla con parole delicate e diplomatiche, ma la gente aveva troppa fame. Preso dall’agitazione ho preso a gettare contro i rivoltosi delle pietre per cercare di allontanarli, e ho colpito alcune persone, ferendone diverse non era mia intenzione far male alla gente, ma non sapevo più che cosa fare, ero disperato. Questo ha fatto infuriare ancora di più la folla, che non ha più resistito: è entrata, ha distrutto tutto e si è portata via tutti i sacchi di farina che c’erano, tutto il pane che avevo appena sfornato, e hanno rubato tutto il denaro che mi era rimasto. E non è finita lì. Una volta finito di saccheggiare il mio forno, è entrato un altro gruppo di persone, per rubare tutto una seconda volta. A quel punto non ce la facevo più, allora sono uscito dal forno e sono stato ad aspettare che tutto finisse. Mi sentivo veramente distrutto. Ora sono tornato a casa, ho bisogno di dormirci sopra, sono stremato.

Rivolta del pane, Milano 1628

Milano, 12 novembre 1628

Oggi sono proprio un disastro.

Mi sento debole, affaticato e stanco. Stanotte non ho chiuso occhio neanche un’oretta, niente di niente. Sono le 10.30, e sono ancora troppo turbato e scosso dal fatto accaduto ieri, soprattutto dopo aver visto stamattina in che condizioni è ridotto il mio forno, in cui dovrei essere andato alle 5 per lavorare, ma sinceramente stamattina presto non avevo il coraggio di uscire. Quando sono uscito di casa, verso le 9, la prima cosa che ho fatto, è stata andarmi a prendere del vino nell’osteria qui vicino. Non mi reggevo in piedi da quanto ero stravolto. L’oste, mio amico, mi ha chiesto cosa mi fosse successo, e gli ho raccontato tutta quanta la faccenda, ma lui non si è stupito più di tanto, poiché in questo periodo è “normale” che accadano queste cose. Dopodiché, ho raggiunto il mio forno, mi sono messo a piangere, ho pensato che in quel momento non avrei dovuto fare nulla, anche perché se avessi provato a ricostruirlo me l’avrebbero distrutto ancora una volta nel giro di pochissimo tempo, e non ne sarebbe valsa la pena. Sono andato a controllare cos’era rimasto nel mio forno, ma ho visto solamente farina sparsa da tutte le parti, di pane non c’era traccia: avevano preso tutto. A quel punto non avevo più niente da fare lì. Sono tornato a casa sconsolato e senza speranze. Ora sto un pochino meglio, forse un giorno riuscirò ad avere di nuovo il mio lavoro, devo solo aspettare che questa terribile lotta finisca.

 

 

 

 

Blog dell’avvocato Azzeccagarbugli

Lecco,Mercoledì 8 Novembre 1628, ore 21.00 (Alessia Paschetta)

Caro diario questa mattina stavo controllando l’ennesima grida nel mio studio con dosso la mia solita toga consulta,quando sento degli strani versi e la mia serva che,con un tono scocciato e duro,dice:”date qui e andate inanzi”. Allora uscito dal mio studio, un po’ disordinato e impolverato, vidi quello che ai miei occhi era palesemente un bravo,che si era tagliato il ciuffo per rendersi meno riconoscibile (che astuzia!) e che si inchinava dinanzi a me, con a fianco la mia serva con quattro capponi in mano.

L’avvocato Azzecca-Garbugli

Lo feci entrare e subito ho notato che il giovane si guardava in torno con aria disorientata, ma speranzosa; allora gli ho chiesto il motivo della sua vista ed egli subito inizia a scusarsi per il suo linguaggio da “poveraccio “(cosa che ormai sta diventando una consuetudine e per cui ogni volta devo fingere compassione per questa fascia di società analfabeta o quasi) e mi chiese, dopo un po’ di insistenza da parte mia per farmi raccontare il fatto e lasciare perdere le scuse, se minacciare un curato,perché non vuole celebrare un matrimonio, fosse un reato penale.

Io subito non ho capito, infatti ho preso tempo giocando con le mie labbra, poi mi sono ricordato di quella grida fresca fresca che avevo messo qualche giorno fa in quel mucchio di gride polverose sul mobile dietro la scrivania, quindi mi sono alzato e l’ho presa. Il poveretto mi faceva quasi compassione, infatti mi è venuto quasi naturale chiamarlo figliuolo e gli ho chiesto se sapesse leggere, cosi’ potevamo analizzare insieme il suo caso. Lui mi ha risposto che se la cavava, ma non era bravissimo; allora ho iniziato a leggere la grida che sembrava essere fatta apposta per il “poverello”, dopo di che ho iniziato a complimentarmi con lui “per il travestimento”,però anche un po’ infastidito, gli ho chiesto di spiegarmi dettagliatamente il motivo della sua visita e per rassicurarlo gli ho detto che comunque io ho cavato altri imbrogli peggiori di una minaccia a un curato o una persona importante. Lui subito mi rispose che non è lui che ha minacciato, ma bensì era lui stesso la vittima.

L’avvocato Azzecca-Garbugli e Renzo

Allora lì ho capito tutto il malinteso che c è stato fra me e quel ragazzo!

Quindi con voce scocciata e arrabbiata gli ho chiesto di chiarire le cose. Dunque inizia raccontare e io inizio a capire che non erano faccende da Azzecca-Garbugli, avrei rischiato troppo… .

Così ho deciso di lavarmene le mani e cacciarlo dal mio studio,sminuendo il suo caso.

Il bello è che il giovane ha continuato a insiste,quindi mi sono innervosito ancora di più, ho chiamato la serva per dargli indietro le bestie e l’ho cacciato!

Non mi era mai capitato di scambiare un giovane di buona fede per un bravo,ma che giornata!

Lecco,Giovedì 9 novembre 1628, ore 23.50(Paschetta Alessia)

Caro diario oggi, dopo aver passato una comune giornata in studio, sono stato invitato a cena da don rodrigo nel suo palazzotto. Allora chiuso lo studio per le 18 ho iniziato a prepararmi, così che per le 19.00 sono partito.

Arrivato sulla collina del palazzotto, da dove potevo vedere tutta Olata, mi sono diretto verso l’entrata e sul portone d’ingresso ho notato subito due avvolto inchiodati ad esso. Che inquietudine! Oltre a quel “benvenuto” ho visto subito la polvere e lo sporco del suo castello, ma dal tronde dovevo immaginarlo già dall’esterno dove c’erano pale e rastrelli buttati a caso e due bravi con aria stanca e scocciata fuori a fare come da guardia. Oltre a me, poco dopo, è arrivato il Podestà, il cugino del padrone, Attilio e altri due convivianti, di cui neanche mi ricordo il nome.

Cena nel palazzotto di Don Rodrigo

Ci siamo seduti subito a tavola e verso le 20 la cena è stata servita. Penso di non aver mai mangiato cosí male in tutta la mia vita, infatti la carne era scotta, la Verdura era stopposa e il pane duro.

In piú, perché tutto ciò non bastava a rovinare la serata, dovevamo parlare di una faccenda noiosissima di cavalleria, ma a un certo punto è arrivato un servo con un frate che don rodrigo, un po’ spaventato, fa sedere al tavolo con noi. Dopo abbiamo cambiato discorso e abbiamo iniziato a parlare di politica e della guerra di successione del ducato di Mantova allora, dato che l argomento mi sembrava troppo pesante e noioso ho proposto un brindisi per il duca d’Olivares e a cui ha partecipato anche il frate.

Dopo il mio brindisi l argomento della cena è cambiato di nuovo, infatti abbiamo iniziato a parlare della carestia, però non so bene cosa sia successo, so solo che a un certo punto Don Rodrigo si allonta con il frate ed è tornato  10 minuti dopo solo e  con aria scocciata e spaventata.

Dopo questo piccolo inconveniente la noiosa serata e andata avanti fra chiacchiere inutili e bicchieri di vino.

Adesso sono nel letto con la luce della candela che sto pensando a che pessima serata è stata questa.

Promemoria: non andare a mangiare mai più nel palazzotto di Don Rodrigo.

Blog del Griso

Lecco, Martedì 7 Novembre 1628, pomeriggio. (Sabrina Patrucco)

Io sono il Griso, il capo dei bravi di don Rodrigo, il mio signorotto. Questo mio nome un po’ strano deriva da un termine lombardo che significa “grigio” e si riferisce al mio carattere cupo. Ho iniziato a lavorare per il mio padrone un po’ di tempo fa, quando, dopo che uccisi un uomo, scappai alla giustizia e mi misi sotto la sua protezione.

Nel paese tutto mi descrivono come “ colui al quale s’impongono le imprese più rischiose e inique”, proprio perché don Rodrigo mi affida ogni giorno incarichi molto pericolosi e delicati.  Ha piena fiducia in me e io ne vado fiero, anche se a causa sua sono complice di molti delitti e crimini.

Quando indosso la mia livrea, mi sento troppo forte: la reticella verde in testa, la cintura lucida di cuoio con appese le pistole, gli ampi calzoni dai quali spunta fuori un manico di coltellaccio, la spada lucente; porto i baffi arricciati in punta, sulla fronte un enorme ciuffo e appeso al collo , come una collana, un piccolo corno ripieno di polvere. Faccio proprio paura!! Chissà come si è sentito don Abbondio quando ha visto me e l’altro bravo che lo aspettavamo! Si è quasi sentito male quando abbiamo fatto il nome di don Rodrigo! Ha provato a difendersi, il codardo, ma gli ho fatto capire che i prepotenti hanno sempre ragione.

Lecco, Venerdì 10 Novembre 1628, mattina, pomeriggio, sera e notte

Uno degli incarichi che mi è stato affidato dal mio capo è quello del rapimento di Lucia  che doveva avvenire nella stessa notte (la “notte degli imbrogli”). La mattina, insieme ad altri bravi, mi sono travestito da mendicante per intrufolarmi a casa di Lucia per poter vedere l’interno. Ho anche fatto finta di sbagliare uscio, così mi sono ritrovato sulla scala e le ho dato in fretta un’occhiata. Ho fatto alcune domande alle due donne, ma mi rispondevano in modo evasivo e sembravano sospettose.

Tutto era pronto per il rapimento e la notte sono entrato con i miei compagni nella casa di Lucia ma era vuota, non c’era nessuno! Abbiamo messo la casa sottosopra , abbiamo rovistato dappertutto, ma nulla, Lucia non c’era proprio. Il garzoncello Menico è arrivato all’improvviso, ci ha sorpresi in casa. Ha cacciato un urlo, l’ho minacciato tirando fuori il mio coltellaccio. Poi le campane si sono messe a suonare impazzite, un rintocco dietro l’altro, siamo dovuti scappare e nella confusione Menico se l’è data a gambe. Che vergogna! I bravi, presi dal panico, si scompigliavano, si urtavano a vicenda, ognuno cercava la strada più corta per arrivare all’uscio, sembravano una mandria di porci. Ho dovuto usare tutta la mia autorità per riportarli all’ordine e prendere la strada che portava fuori dal paese.

Il mio padrone mi aspettava in cima alla scala e mi ha accolto con rimproveri che non meritavo: avevo lavorato duramente rischiando anche la pelle. Quando poi mi ha congedato, ha cercato di addolcire i rimproveri dicendomi che comunque mi ero comportato bene. Gli ho promesso che l’indomani mi sarei mescolato con altri bravi alla gente del paese per capire cosa fosse successo quella notte. La gente parla ed è stato facile capire dove si era rifugiata Lucia. Così don Rodrigo mi ha ordinato di trasferirmi a Monza per prendere informazioni circa il convento in cui Lucia era stata accolta. Io ero pronto a metterci la pelle per il mio padrone, ma questa…questa poteva anche risparmiarsela!

A Monza ero conosciuto, c’erano parecchie taglie sulla mia testa e non avrei avuto la protezione di don Rodrigo. L’ho spiegato al mio padrone e lui mi ha deriso, ha detto che sembravo quei cani da cortile che hanno l’aspetto feroce ma sono in realtà paurosi. Mi sono risentito e ho detto che ero pronto a partire e così ho fatto portando con me lo Sfregiato e il Tiradritto. Sono partito per Monza arrabbiato come un lupo affamato nella neve.

Milano, fine Agosto 1630, di notte.

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Quando don Rodrigo si è sentito poco bene, ho subito avuto il sospetto che covasse la peste e gli ho puntato in faccia il lume per guardarlo meglio.

Lui diceva che stava bene, che aveva solo bevuto troppo ma, quando febbricitante ha cacciato un urlo e mi ha chiamato, ho avuto la certezza che era proprio peste. L’ho guardato a distanza, era disperato, ha detto che se fosse guarito mi avrebbe fatto del bene più di quanto non me ne avesse già fatto. Diceva che si fidava solo di me, voleva che chiamassi il chirurgo e che lo avrebbe pagato bene per tenere segreta la sua malattia. Lui è gli scudi! Pensava di comprare ogni cosa con i suoi scudi! Non ce l’ho fatta, l’ho tradito: ho chiamato i monatti, lui era sconvolto, chiedeva aiuto, voleva ammazzarmi, diceva che aveva fatto sempre il mio bene. Io mi voltavo dell’altra parte e con i monatti mi sono impossessato dei suoi averi. I monatti lo portarono via su una barella e io rimasi a scegliere quello che mi poteva servire; non avevo mai toccato i monatti per paura della malattia ma nella furia del frugare ho scosso i panni del mio padrone. Non sono riuscito a godere delle cose rubate: il giorno dopo mi sono sentito male in una bettola, i compagni mi hanno abbandonato.

Sono finito nelle mani dei monatti che mi hanno preso tutto e mi hanno gettato su un carro. Sono morto prima di arrivare al Lazzaretto.

Adesso che sono morto posso dire come la penso sul mio padrone: ero il suo fidato, diceva che mi aveva fatto solo del bene. Io mi sentivo protetto da lui per evitare la galera e lui mi usava per i suoi servizi. Era abituato a comprare tutto con i suoi scudi, mi ha detto che ero un cane da pagliaio quando non volevo andare a Monza, mi ha pagato e io ci sono andato.  Non lo sopportavo più, per questo l’ho tradito consegnandolo ai monatti. Pensavo di vivere agiatamente con i suoi averi ma la mia avidità mi ha portato alla morte e adesso che sono nell’aldilà, credo che, se non fossi stato accecato dalla possibilità di diventare ricco, forse sarei ancora vivo.

 

 

Blog di Fra Cristoforo

Lecco, 8 Novembre 1628 (Scalzo Rossella)

Mi chiamo Lodovico e sono qui a scrivere la prima pagina del mio diario per poter manifestare le mie emozioni.

Sono figlio di un ricco mercante di *** che dopo aver accumulato molte ricchezze, decise di lasciare da parte il commercio per dedicarsi ad una vita agiata.

Mio padre voleva far dimenticare il suo passato di un uomo povero e studiava tutti i modi di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui.

Io sono stato educato nel lusso, secondo l’arte della cavalleria, e sono abituato ad esser trattato con molto rispetto, circondato da adulatori.

Tuttavia, i potenti del luogo mi tengono in disparte e il mio carattere acceso mi ha portato a voler diventare una sorta di protettore degli oppressi. Prendo volentieri le parte dei deboli e cerco di tenere a freno i soverchiatori, ma per fare questo mi sono dovuto circondare di bravi, andando contro la mia coscienza.

Tutto filava liscio quando stamattina, mentre sto passeggiando per una strada della mia città, accompagnato da due bravi e dal mio fedele servitore Cristoforo, vedo spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non ho mai parlato ma che mi è cordiale nemico. Quando ci incrociamo mi dice:”Fate luogo”. Io rispondo che la precedenza è la mia e lui  risponde all’istante in modo arrogante. 

 Iniziamo a litigare fino ad arrivare alle armi e, mentre io cerco di scansare i colpi, lui cerca di uccidermi.

Cristoforo, il mio fedele servitore vedendomi ferito, viene in mio soccorso e si scaglia contro il nemico che, con una spada in mano, lo trafigge.

Io, vedendo Cristoforo a terra, con tutta la mia ira colpisco l’avversario al ventre e quello cade. I suoi bravi scappano e lo lasciano solo: rimaniamo io e i due defunti in mezzo ad una folla che si è fermata per assistere al duello.

Ora mentre scrivo, sono ricoverato nel vicino convento dei Cappuccini dove mi sono rifugiato e sto ripensando all’accaduto. Mi sento molto in colpa per la morte del mio servo, così ho deciso di chiamare un frate per cercare la vedova di Cristoforo e per dirle che provvederò io al mantenimento della famiglia.

L’antico pensiero di farmi frate è ritornato alla mia mente e, con questo segno divino, ho deciso di entrare nell’ordine dei Cappuccini, con il nuovo nome di Cristoforo.

La famiglia dell’assassino, nel frattempo, desidera far giustizia dell’ucciso, ma io vorrei chiedere il perdono e scusarmi per il gesto violento, così che mi recherò da loro e chiederò perdono.

Mi reco a casa della famiglia dell’ucciso.

Attraverso il cortile con una folla che mi squadra con una curiosità poco cerimoniosa e, seguito da un centinaio di sguardi, giungo alla presenza del padrone di casa.

Questo, circondato dai suoi parenti ha lo sguardo a terra e con la mano sinistra impugna il pomo della spada.

Io mi inginocchio e con un gesto umile invoco il perdono della famiglia che, mossa dalla commozione, mi perdona e mi offre il rinfresco. Io per non rifiutare i suoi doni chiedo un pane come pegno, lo saluto e mi reco verso l’uscita. Mentre la famiglia continua a festeggiare, abbandono la città pronto ad iniziare una nuova vita, più umile e meno ribelle.

 La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso e un po’ più alla mano.  (Alessandro Manzoni)

 

Lecco, 9 Novembre 1628, al mattino. (Scalzo Rossella)

Appena arrivato a casa di Lucia mi accorgo che i miei presentimenti non erano falsi: guardando le due donne capisco che è successo qualcosa di grave.

Lucia scoppia a piangere e io cerco di tranquillizzarla, mentre chiedo ad Agnese di raccontarmi cos’è successo. Lei inizia la sua dolorosa relazione e io cerco di trattenermi.

Appoggio il gomito sinistro sul ginocchio, chino la fronte nella palma e con la destra stringo la barba e il mento come per tenere ferme e unite tutte le potenze dell’anima.

Penso a diverse ipotesi: mettere un po’ di vergogna a Don Abbondio e fargli sentire quanto manchi al suo dovere, informar di tutto il cardinal Arcivescolo, e invocar la sua autorità, oppure tirare dalla mia parte i miei confratelli di Milano.

Alla fine decido di affrontare io stesso Don Rodrigo per tentar di smuoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se sia possibile.

Nel frattempo arriva Renzo che si ferma sulla soglia in silenzio.

Quando alzo lo sguardo per comunicare alle donne il mio progetto mi accorgo di lui e lo saluto. Renzo, prima commosso e poi infuriato, racconta del suo progetto di affrontare Don Rodrigo ma io lo afferro fortemente al braccio e gli faccio promettere che non provocherà nessuno e che si lascerà guidare da me.

Io cerco di tranquillizzarlo comunicando che andrò io stesso da lì a poco a parlare di persona a Don Rodrigo.

Detto questo, tronco i ringraziamenti e le benedizioni e mi avvio verso il convento per cantare le preghiere del mezzogiorno, poi mi metto in cammino per andare verso il covile della fiera che volevo provare ad ammansare…

 

Lecco, 9 Novembre 1628 (Nicotra Gaia)

Mentre mi avvicino al castelletto di Don Rodrigo, attraverso le strade del paese, mi rendo conto che tutti gli abitanti hanno connotati somatici inquietanti, dalle donne ai bambini: i volti sono arroganti e le espressioni maleducate.

Intravedo l’uscio presidiato da due energumeni di guardie e su di esso vedo  scolpite due teste di avvoltoi. L’edificio sembra abbandonato, le finestre sono serrate da inferriate possenti, l’atmosfera è tutt’altro che lieve, si odono cani abbaiare ferocemente. Una delle due guardie, riconoscendo il mio abito, mi degna di attenzione e mi permette di entrare. Vengo accompagnato in una sala dalla quale si sentono commensali in festa; mi annunciano, entro, un’atmosfera di disagio mi assale: è in corso una discussione su tematiche letterarie, mi vogliono coinvolgere ma cerco di evitare ogni domanda. Infastidito da ciò, Don Rodrigo quasi con tono di minaccia, mi ricorda che in fondo sa benissimo che non sono sempre stato un religioso ma un uomo di mondo e a questo punto vorrei rispondere, ma preferisco tacere ricordandomi il motivo per cui mi sono recato in questo luogo.

La discussione poi riprende, questa volta il soggetto è la successione al Ducato di Mantova, che io ascolto in silenzio, non voglio partecipare, mi sembra don Rodrigo che si stia perdendo tempo per non avere un colloquio privato con me. Me ne sto zitto in un angolo, paziente, non posso andarmene senza essere stato ascoltato, prima o poi qualcuno smetterà di parlare … Ecco! Don Rodrigo incrocia il mio sguardo, forse mi concede udienza, si alza, si avvicina e mi fa cenno di seguirlo in un’altra sala. conduce in un’ altra sala.

Don Rodrigo si mette zitto in mezzo alla stanza e mi chiede con tono deciso e quasi irriverente:  “In che cosa posso ubbidirla?”

Giro e rigiro la corona del rosario tra le mie mani cercando frasi da pronunciare o meglio cercando di non far uscire quelle che avrei voluto pronunciare, ma che non erano adatte al fine che mi ero proposto; cosi decido di venire al dunque e di chiedere un atto di carità, vale a dire di lasciare in pace Renzo e Lucia. Don Rodrigo mi risponde stizzito, dicendo di non amare chi fa leva sui sentimenti di coscienza e onore e che ha molto rispetto del mio abito ma che potrebbe dimenticarsene. Cerco di rimediare solleticando  l’ego di questo uomo  dice:  “Una parola di lei può far tutto”.  Don Rodrigo mi risponde: “Ebbene” e per un attimo spero  abbia deciso di lasciare libera Lucia, invece rigira il discorso dicendomi di portargliela in modo che possa proteggerla.

A questo punto non ce la faccio più ed esplodo dicendo: ” La vostra protezione! E’ meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatto a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.”

Inizio a dire che la sua casa sarà maledetta e termino dicendo: “Verrà un giorno…”

Don Rodrigo davanti a me rimane stupefatto, mi sembra impaurito, poi grida forte di levarmi dai piedi, mi indica la porta e io me ne vado.

Uscendo il vecchio guardiano, mi si avvicina e portandosi un dito alla bocca mi sussurra: “Padre ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle” spero di avere qualche risposta subito, invece quello mi propone un incontro in un luogo più sicuro nei giorni seguenti.

Milano,  24 Agosto 1630 (Nicotra Gaia)

Mi trovo nel lazzeretto, un recinto quadrilatero fuori dalla città di Milano destinato agli appestati, mi guardo intorno e vedo solamente uomini malati, con gli occhi che urlano sofferenza e dolore, uno di essi mi si avvicina e mi chiede aiuto, un aiuto fatto solo di parole e comprensione… nulla può guarirlo.

Mentre mi aggiro tra le baracche piene di paglia putrida e fetente con la scodella in mano, mi fermo all’uscio di una di esse, mi siedo e sento una voce, una voce familiare; poso in terra la scodella e mi alzo con difficoltà, rimango meravigliato da quell’uomo che riconosco essere Renzo, “come sta padre? Come sta?” mi domanda. Rispondo, ancora sorpreso: “Meglio di tanti poverini che tu vedi qui” . Gli chiedo di Lucia e mi dice che non è ancora sua moglie e la sta cercando, spera di trovarla proprio lì.

Mi ritiro con lui in un posto appartato,  gli procuro un pasto caldo e gli chiedo di raccontarmi cosa è successo; tra una cucchiaiata e l’altra, Renzo mi racconta di Lucia del suo rapimento e della sua clausura nel Monastero di Monza; mi racconta di essere stato anche a Milano ma di non averla trovata.

Gli dico che le donne nel lazzeretto sono divise dagli uomini ed è proibito incontrarsi.

Mi dice che sono venti mesi che la cerca e gli indico di rivolgersi a Padre Felice, il frate cappuccino del lazzeretto, perché proprio oggi avverrà l’incontro di tutti i superstiti. Quindi gli consiglio di intrufolarsi quando ci sarà il rintocco delle campane e cercare di scorgere il volto di Lucia. Spero prima di morire di sapere che lei sia viva … L’afferro per un braccio e lo sposto dicendogli che non ho tempo di dargli retta e ascoltare i suoi desideri di vendetta. Ma decido di prenderlo per mano e lo conduco in una stanza, all’interno della quale riposa un uomo in fin di vita: Don Rodrigo. Glielo indico e voglio che lo guardi, lo induco a perdonare ” forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipendono ora da te, da un sentimento di perdono, di compassione…d’amore!”

Renzo giunge le mani e china il viso su di esse, usciamo dalla stanza, io  mi avvio lentamente e dolorante con il pensiero di poterlo incontrare.